Alla ricerca dei dati per raccontare storie

di Luca Garosi 
(@lucagarosi)

«Il nostro obiettivo è quello di raccontare storie partendo dall’analisi dei dati». Lo scrivono Andrea Nelson Mauro e Alessio Cimarelli nella presentazione del loro network di data journalism: dataninja.it.

«Siamo entrati in contatto nella primavera del 2012, complice una comune amica e collega», raccontano. Alessio aveva terminato da pochi mesi il master in comunicazione della scienza della SISSA di Trieste e si stava avvicinando al data journalism grazie anche al suo background da fisico sperimentale. Andrea invece ha sempre lavorato nella carta stampata (cronaca locale) finché il suo giornale (L’Informazione di Bologna) ha chiuso, anche se aveva già cominciato a darsi da fare per attivare collaborazioni con altre testate e per realizzare nuovi progetti.

«Durante l’estate del 2012 – dicono – abbiamo deciso di metterci in gioco e abbiamo scelto un tema, l’immigrazione e in particolare le vittime delle migrazioni in Italia e in Europa».

Sono partiti dai dati raccolti da Gabriele del Grande sul suo blo/osservatorio Fortress Europe. Dopo un anno di lavoro e alcune importanti pubblicazioni in Italia, i due giornalisti si resero conto «che non poteva finire così e che il progetto aveva bisogno di un respiro internazionale. Da soli non avremmo più potuto arricchire la narrazione di un fenomeno così ampio e complesso come quello dell’immigrazione in Europa».

Propongono una collaborazione al tedesco Nicolas Kayser-Bril, co-fondatore e CEO dell’agenzia giornalistica Journalism++. «Risponde  – ricordano – con una di quelle frasi che ti aprono il cuore: “This is great. We’re working on a similar proposal with Swiss and Swedish journos. We should talk!“. Dopo aver coinvolto colleghi da Svizzera, Svezia, Francia, Germania e Spagna inviamo tutti insieme un progetto ambizioso: riunire e conciliare i maggiori database esistenti sulle vittime delle migrazioni in Europa. Inizialmente ne individuiamo due: il nostro Fortress Europe di Gabriele del Grande e quello curato dalla UNITED for Intercultural Action. In un secondo momento aggiungiamo i dati estratti da PULS, un progetto dell’Università di Helsinki». Partecipano al bando di Journalism Fund dedicato a inchieste giornalistiche di respiro europeo (con proponenti da almeno due paesi). Il progetto passa e viene finanziato con circa 7 mila euro. «Ben poco – sottolineano – per ripagare davvero un lavoro fatto da una decina di persone per sei mesi. Ma sufficiente per mettersi in moto».

Il lungo lavoro sui migranti li ha portati a vincere i Data Jour­na­lism Awards nella cate­go­ria “Best story on a sin­gle topic” (la manifestazione si è svolta a Bar­ce­lona dall’11 al 13 giugno 2014). «In que­sta cate­go­ria – sottolineano – la giu­ria ha pre­miato que­sta inchie­sta, preferendola a lavori dav­vero ecce­zio­nali rea­liz­zati da New York Times, Pro­Pu­blica e La Nacion, un risul­tato da “Davide e Golia”, che ci sti­mola a lavo­rare meglio e dimo­strare che anche qui dall’Italia pos­siamo dire la nostra nel con­te­sto del data jour­nlism globale».

La mappa rea­liz­zata per il pro­getto (al quale hanno dedi­cato anche un blog) mostra i luoghi dove 23 mila migranti sono morti nel ten­ta­tivo di rag­giun­gere l’Europa tra il 2000 e il 2013. Ma il lavoro non si conclude qui, dicono gli autori: «abbiamo comunque intenzione di portarlo avanti con il nostro team europeo».

Da quell’incontro del 2012, come già scritto, non è nata soltanto l’inchiesta sui migranti, ma un forte sodalizio che ha portato alla nascita di dataninja.it, «labo­ra­to­rio di sperimentazione nel giornalismo».

Vi ispirate a qualche modello internazionale?
«Le prime fonti di ispirazione sono stati inevitabilmente i lavori del Guardian, del New York Times e di ProPublica. Abbiamo colto subito l’importanza di una buona base tecnica per quanto riguarda le tecnologie web, essendo il web il nostro principale supporto di pubblicazione. Non è sempre fondamentale saper programmare, ma è indispensabile sapere cosa si può fare con il codice. Abbiamo preso in prestito la filosofia dell’open source e dell’approccio Wikipedia, di un modello basato su progetti e riflessioni all’interno e intorno a comunità di persone e interessi, caratterizzate dalla massima trasparenza e condivisione interna ed esterna. Non per niente siamo attivisti di Spaghetti Open Data e in generale del movimento Open Data italiano e lavoriamo in coprogettazione con realtà internazionali analoghe alla nostra e molto affermate come Journalism++».

Esistono in Italia network o associazioni di data journalism?
«Qui i termini si fanno un po’ confusi. Se per network si intendono gruppi di persone che lavorano insieme, senza necessariamente un riconoscimento ufficiale e/o legale, ce ne sono molti: oltre a noi ci sono i collaboratori “data” di Wired.it, la redazione di Datajournalism.it, i team vincitori della Stampa Academy, l’osservatorio DataJCrew, il duo di Datifatti.it, l’amico Carlo Romagnoli con Data Reporting News. Se invece si intende qualcosa di più strutturato, come associazioni vere e proprie, cooperative o altre forme giuridiche di questo tipo, probabilmente non c’è nulla esclusivamente dedicato al data journalism. La cooperativa F5, per esempio, ma anche la stessa formicablu, si occupano di giornalismo, a volte anche basato sui dati. Ci sono molti altri soggetti che hanno a che fare con l’open data o la gestione e analisi dei dati, ma non hanno un profilo esclusivamente giornalistico».

Il Data Journalism è un lavoro di squadra e c’è bisogno anche di figure professionali diverse dai giornalisti. Quali?
«Per un singolo professionista è quasi impossibile maneggiare allo stesso livello tutte le competenze coinvolte in una classica inchiesta di data journalism. Il profilo giornalistico è necessario per capire dove stanno le notizie, che taglio dare alla narrazione, su cosa concentrarsi e cosa invece tralasciare in un dataset complesso. Maneggiare e analizzare i dati invece richiede sicuramente buone competenze informatiche (non si fanno calcoli a mano), ma soprattutto buone capacità matematiche e statistiche e conoscenza delle possibili operazioni che si possono applicare ai dati. Nel racconto della storia, poi, la visualizzazione dei dati è un mezzo espressivo molto potente e per usarlo al meglio è necessario avere competenze di grafica e design, oltre che di UX (User Experience) se si tratta di grafiche interattive su web. E infine, avendo sempre a che fare con tecnologie digitali, non si può prescindere da uno sviluppatore che sappia maneggiare diversi linguaggi di programmazione e produrre materialmente le visualizzazioni, le applicazioni, le pagine web, ecc.».

Quali sono i vostri prossimi progetti?
«Siamo in questi giorni impegnati su un filone di lavori dedicati al mondiale di calcio insieme ad altri colleghi (http://stories.dataninja.it/sport/). Stiamo lavorando a un progetto per aprire definitivamente i dati sui beni confiscati alla criminalità organizzata e poterci così costruire narrazioni e inchieste, oltre che coinvolgere il mondo delle associazioni e delle istituzioni (http://www.confiscatibene.it). Siamo coinvolti in uno dei progetti finanziati nell’ultima tornata dei Journalism Grants banditi dall’EJC. Abbiamo poi la nostra attività di formazione sul data journalism assieme agli ODG regionali e a diverse istituzioni pubbliche. Stiamo anche seguendo con interesse l’evoluzione del sensor-based journalism, ancora poco noto in Italia, che si basa sull’uso di sensori e di elettronica a basso costo per raccogliere e analizzare dati, soprattutto in ambito ambientale. Un caso interessante in tal senso è “Acqualta”, progetto di monitoraggio civico del livello dell’acqua a Venezia (http://www.acqualta.org/)