Lezione sull’indipendenza

Qual è il bene più prezioso per il giornalista? L’indipendenza. E basta il gesto solitario dell’indipendenza? No. È il giornalista che fa il suo mestiere in una testata che gli assicura l’indipendenza che può dire di essere indipendente. Non è un gioco di parole. L’indipendenza, per il giornalista, è un valore individuale e collettivo.
Una questione decisiva, in ogni tempo, ancor più quando le generali e generiche azioni comunicative del nostro tempo vengono scambiate per giornalismo. Proponiamo qui la riflessione del presidente della Scuola, Antonio Bagnardi, estratta dal discorso di inaugurazione del quattordicesimo biennio.

Un ambito cruciale nel quale il giornalista deve esercitare la sua indipendenza è anche quello della giustizia. Il libro “Giornalisti e Giudici, quando la cronaca trova il colpevole prima della sentenza”, pubblicato da Rai-Eri e scritto da Vittorio Roidi e Lorenzo Grighi (un “vecchio” giornalista, docente della Scuola, e un giovane cronista, ex allievo della Scuola), parte dai casi dell’omicidio di Meredith Kercher a Perugia e di Chiara Poggi a Garlasco per affrontare il delicatissimo tema dei “processi mediatici” e dello sbilanciamento dell’informazione verso la pubblica accusa.

Se “il buon giornalismo è la fatica del cercare, del documentarsi, del controllare, senza paraocchi, senza settarismi e in modo indipendente”, che cosa è successo ai professionisti dell’informazione nel caso dell’omicidio di Meredith Kercher a Perugia, e di Chiara Poggi a Garlasco?

I due casi presentano conclusioni opposte, ma anche molte analogie: i due principali indagati, Raffaele Sollecito, nel primo caso, e Alberto Stasi, nel secondo, sono stati subito raffigurati e valutati dai media come “colpevoli”, senza rispettare quel diritto alla presunzione di innocenza che, secondo la legge italiana, deve essere riconosciuto sempre e comunque a ogni imputato.

Vittorio Roidi e Lorenzo Grighi – due generazioni di giornalisti a confronto – esaminano le modalità con cui la cronaca nera tratta i suoi protagonisti, sottoponendoli a un processo mediatico prima ancora che giudiziario, in un saggio che è, al contempo, un atto di accusa contro le derive del giornalismo e un manifesto sui principi di un’informazione corretta.” I due autori si sono conosciuti alla Scuola di giornalismo di Perugia. Vittorio Roidi è docente della Scuola, mentre Lorenzo Grighi, è stato praticante nel biennio 2012-2014 e ha ricoperto per due anni il ruolo di tutor (2014-2016) .

Qui di seguito l’introduzione al libro. 

UN ATTO D’ACCUSA
di Antonio Bagnardi*

Quanto state per leggere è un atto d’accusa al giornalismo scritto da due giornalisti. Facendo il giornalista da più di quarant’anni, diffido degli atti di accusa al giornalismo. I tentativi di contenere i giornalisti, di limitarne l’agibilità o l’accesso alle fonti, di restringere le classiche azioni di “andare, vedere, raccontare”, i tentativi di intimidirli o inibirli con leggi o regolamenti, sono una seria minaccia non solo alla libertà di stampa e di espressione, ma a tutta la gamma delle libertà.

Ci sono valori non negoziabili e uno di questi è il diritto a essere consapevoli del mondo che ci circonda, il diritto a sapere, a conoscere, a esercitare consapevolmente e criticamente il consenso o il dissenso, il diritto a rivolgersi a giornalisti indipendenti per ottenere queste informazioni e queste consapevolezze. È un diritto insopprimibile in ogni democrazia minimamente degna di questo nome.

Nemmeno gli atti di accusa al giornalismo scritti dai giornalisti, una sorta di denuncia interna corporis, sono per ciò stesso meritevoli di una considerazione privilegiata. Non ci sono assoluzioni o, viceversa, dannazioni con valore aggiunto, grazie al fatto che siano propinate in nome della categoria.

Potremmo dire, in definitiva, che non è importante chi siano e che professione facciano gli autori della deplorazione che state per leggere, non è importante che siano due giornalisti, e nemmeno che l’uno sia un “vecchio” giornalista (dico “vecchio giornalista” con affetto, anch’io lo sono) e l’altro un giovane redattore, che siano cioè due sensibilità giornalistiche di diversa generazione a incontrarsi in questo atto d’accusa.

Il punto, purtroppo (purtroppo per il giornalismo italiano), è che le accuse che troverete snocciolate in questo libro (che andrebbe distribuito nelle redazioni e nelle scuole di giornalismo) sono circostanziate e, a mio modo di vedere, sono più che convincenti.

Questo atto di accusa al giornalismo inchioda alla sua tossicità una cattiva pratica (starei per dire: una cattiva filosofia) di fare giornalismo. La materia qui riguarda quello che sinteticamente possiamo chiamare “il processo”, che, in Italia, va declinato al plurale: “i processi”. Dal delitto ai vari gradi di giudizio fino alle sentenze, passando per gli sghembi tragitti dell’indagine. Il giornalismo sul processo. Ma la qui presente denuncia dei distorti modi di fare giornalismo nell’ambito del processo può essere estesa, anzi deve essere estesa a ogni pencolamento, a ogni alterato modo con cui il giornalista si misura con il fatto e con i suoi attori, a ogni scompensato modo di valutare le fonti, al dispari modo di verificarle.

Deve essere estesa a un difetto inammissibile nel mestiere del giornalista: il difetto di svigorire il valore dell’indipendenza, dell’imparzialità. E si dovrebbe aggiungere: il difetto di non essere umili, come si diceva un tempo. Con il precetto dell’umiltà, ormai disperso nella trasmissione dei valori della professione, non si intendeva (non si intende) una via francescana al giornalismo, non si evocavano (non si evocano) virtù di semplicità, moderazione, tatto. Si intendeva (si intende) l’umiltà al cospetto del fatto, al cospetto della cronaca, l’umiltà del cercatore. L’umiltà, cioè, di non ergersi a giudice, di non parteggiare, l’umiltà dello scavare senza preconcetti: l’umiltà – come diceva Enzo Biagi – di “fare la fatica di capire affinché gli altri capiscano”.

Il buon giornalismo è giornalismo di ricerca, è la fatica del cercare, del documentarsi, del controllare, senza paraocchi, senza settarismi, in modo del tutto indipendente. Quando anche i grandi maestri ci dicevano che si può avere un “punto di vista”, purché “onesto” e “dichiarato”, non ci consegnavano una buona lezione, perché già nel “punto di vista” c’è un germe di manipolazione.

Lo sforzo, semmai, pur avendo un legittimo “punto di vista”, è di neutralizzarlo, di non tenerne conto, di non lasciarsene influenzare. Esercitare il diritto al proprio “punto di vista” è già un’altra cosa, è già un altro mestiere. Molta parte dell’informazione circolante in Italia, tra quella più fruita dal pubblico, soprattutto quella che circola nei talk-show televisivi sortendo dal proteiforme comparto chiamato “comunicazione”, è
malata di opinionismo, per non parlare dei contenuti incontrollati che circolano sul web, con il loro carico funesto di dietrologia ideologica, di narcisismo, di fake news e di odiatori seriali.

Si presume di fare informazione a partire da uno schieramento, da una partigianeria, da un’invettiva, come se il pluralismo informativo fosse una somma di faziosità. Si blatera sovrapponendo le voci o le urla, in un marasma di semplificazioni, di pareri approssimativi, di estremismi verbali, frequentemente di propaganda politica, talora di invenzioni vere e proprie. Una marmellata, una tiritera che nulla ha a che fare con il giornalismo. Quando in questo marasma precipita il “processo”, la frittata è fatta.

Leggendo questo libro proverete, talvolta, sentimenti controversi. Penserete che gli autori siano troppo indulgenti con i “colpevoli”, che si impaludino in una pietas mal riposta. Ma il punto è proprio questo: quando, anche per un giornalista, un sospettato, un indagato è colpevole? Non lo è certo nel divenire del processo. Non lo è certo in ragione dell’affastellarsi della vox populi, delle impressioni, delle suggestioni, dei rigurgiti lombrosiani. E soprattutto – questa la piaga qui denunciata – mai il sospettato può coincidere con il colpevole solo perché a ritenerlo colpevole è la pubblica accusa nel vivo farsi, nell’acerbo farsi, del processo.

È vero che la pubblica accusa ha l’obbligo di conferire nel processo anche le eventuali prove a discarico del presunto colpevole, ma non è un’entità terza, è una parte del processo e la sua pari dignità con la difesa è in un problematico se non esile bilanciamento, incardinandosi (la pubblica accusa) nella potente “pretesa punitiva” dello Stato.

Non è un male nuovo del giornalismo italiano, è un male che ha già avuto un acme ai tempi di Mani Pulite, allorché identificare l’azione informativa con gli atti dei Pm ha significato introdurre un abominio, uno squilibrio, nel resoconto di quella drammatica crisi della vita pubblica.

Tutti i giornalisti lo sanno (e se non lo sapessero, dovrebbero cambiare mestiere), ma non tutti, in un’evidenza che direi annosa e cancerogena, si astengono dal perpetuare questo male tecnico, questo male culturale, questo male morale, questo male giornalistico, questo male democratico: il male di trattare come favorita la fonte della pubblica accusa, adottare le “voci dal sen fuggite” delle Procure come “verità”. La verità! I giornalisti hanno uno scopo sociale velleitario, scolpito addirittura nella legge: la ricerca della verità. Un’idea che fa paura. C’è del mitico, del divino, dell’assoluto.

Ma da quante facce è composta la verità? E si può ragionevolmente credere che i giornalisti la trovino? Ovviamente no. Nemmeno le verità giudiziarie passate in giudicato, avendo a che fare con il crogiuolo delle vicende umane, misurandosi con il rischio, fin da Eschilo, che l’eccesso di diritto incrini la giustizia, sono un dogma. Persino la storia, a ogni nuovo svelamento, deve essere riscritta. Immaginiamoci la cronaca, friabile com’è.

Un grande giornalista, Giorgio Bocca, sosteneva che “la verità è clamorosa”, che un giornalista la coglie subito, che è sotto i nostri occhi, che subito riusciamo a distinguere i torti e le ragioni, e che, ad adulterare la “clamorosa verità”, sono le mediazioni operate a causa dei nostri condizionamenti culturali o politici. È una definizione che ho sempre fatto mia, ma bisogna ammettere che si tratta di una definizione felice e avvincente per la sua dirompenza, per la sua radicalità, per la sua radicale integrità, ma che non sempre è così. Che non sempre la verità è clamorosa. Anzi, che quasi mai è clamorosa. Che qualche volta, quanto appare sotto i nostri occhi è ingannevole. E che il vero scopo sociale del giornalista è quello di provare a comporre il policromo mosaico delle verità, sapendo che esse potranno essere in contraddizione e che ognuna di esse potrà portare in sé una dignità, un valore, un clamore.

Prendere per oro colato le posizioni del potere giudiziario, parteciparvi come officianti di uno stesso rito sacerdotale, quasi che la magistratura avesse il verbo in tasca, è grave quanto immedesimarsi col potere politico o con un interesse economico. Il vero giornalista è sempre in cerca, ha in dote la virtù del dubbio, ancor più di fronte a contesti in cui operi un potere. Se fa il watchdog, se fa il “cane da guardia”, lo deve fare con tutti. È in questa autentica indipendenza il rivoluzionario fascino del nostro mestiere.

* Antonio Bagnardi è entrato nei giornali nel 1977 ed è giornalista professionista dal 1981. Da 30 anni lavora in Rai, dove è stato inviato, giornalista parlamentare, caporedattore, vicedirettore del Tg2 dal 1994 al 2002 e direttore responsabile di Televideo per 11 anni. Dal novembre 2017 è Presidente del Centro italiano di formazione e aggiornamento nel giornalismo radiotelevisivo (fondato nel 1992 dalla Rai e dall’Università degli studi di Perugia), dopo esserne stato direttore per quattro anni.