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Perugia, 05 maggio 2024  

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Alla ricerca dei dati per raccontare storie

di Luca Garosi 
(@lucagarosi)

«Il nostro obiettivo è quello di raccontare storie partendo dall’analisi dei dati». Lo scrivono Andrea Nelson Mauro e Alessio Cimarelli nella presentazione del loro network di data journalism: dataninja.it.

«Siamo entrati in contatto nella primavera del 2012, complice una comune amica e collega», raccontano. Alessio aveva terminato da pochi mesi il master in comunicazione della scienza della SISSA di Trieste e si stava avvicinando al data journalism grazie anche al suo background da fisico sperimentale. Andrea invece ha sempre lavorato nella carta stampata (cronaca locale) finché il suo giornale (L’Informazione di Bologna) ha chiuso, anche se aveva già cominciato a darsi da fare per attivare collaborazioni con altre testate e per realizzare nuovi progetti.

«Durante l’estate del 2012 – dicono – abbiamo deciso di metterci in gioco e abbiamo scelto un tema, l’immigrazione e in particolare le vittime delle migrazioni in Italia e in Europa».

Sono partiti dai dati raccolti da Gabriele del Grande sul suo blo/osservatorio Fortress Europe. Dopo un anno di lavoro e alcune importanti pubblicazioni in Italia, i due giornalisti si resero conto «che non poteva finire così e che il progetto aveva bisogno di un respiro internazionale. Da soli non avremmo più potuto arricchire la narrazione di un fenomeno così ampio e complesso come quello dell’immigrazione in Europa».

Propongono una collaborazione al tedesco Nicolas Kayser-Bril, co-fondatore e CEO dell’agenzia giornalistica Journalism++. «Risponde  – ricordano – con una di quelle frasi che ti aprono il cuore: “This is great. We’re working on a similar proposal with Swiss and Swedish journos. We should talk!“. Dopo aver coinvolto colleghi da Svizzera, Svezia, Francia, Germania e Spagna inviamo tutti insieme un progetto ambizioso: riunire e conciliare i maggiori database esistenti sulle vittime delle migrazioni in Europa. Inizialmente ne individuiamo due: il nostro Fortress Europe di Gabriele del Grande e quello curato dalla UNITED for Intercultural Action. In un secondo momento aggiungiamo i dati estratti da PULS, un progetto dell’Università di Helsinki». Partecipano al bando di Journalism Fund dedicato a inchieste giornalistiche di respiro europeo (con proponenti da almeno due paesi). Il progetto passa e viene finanziato con circa 7 mila euro. «Ben poco – sottolineano – per ripagare davvero un lavoro fatto da una decina di persone per sei mesi. Ma sufficiente per mettersi in moto».

Il lungo lavoro sui migranti li ha portati a vincere i Data Jour­na­lism Awards nella cate­go­ria “Best story on a sin­gle topic” (la manifestazione si è svolta a Bar­ce­lona dall’11 al 13 giugno 2014). «In que­sta cate­go­ria – sottolineano – la giu­ria ha pre­miato que­sta inchie­sta, preferendola a lavori dav­vero ecce­zio­nali rea­liz­zati da New York Times, Pro­Pu­blica e La Nacion, un risul­tato da “Davide e Golia”, che ci sti­mola a lavo­rare meglio e dimo­strare che anche qui dall’Italia pos­siamo dire la nostra nel con­te­sto del data jour­nlism globale».

La mappa rea­liz­zata per il pro­getto (al quale hanno dedi­cato anche un blog) mostra i luoghi dove 23 mila migranti sono morti nel ten­ta­tivo di rag­giun­gere l’Europa tra il 2000 e il 2013. Ma il lavoro non si conclude qui, dicono gli autori: «abbiamo comunque intenzione di portarlo avanti con il nostro team europeo».

Da quell’incontro del 2012, come già scritto, non è nata soltanto l’inchiesta sui migranti, ma un forte sodalizio che ha portato alla nascita di dataninja.it, «labo­ra­to­rio di sperimentazione nel giornalismo».

Vi ispirate a qualche modello internazionale?
«Le prime fonti di ispirazione sono stati inevitabilmente i lavori del Guardian, del New York Times e di ProPublica. Abbiamo colto subito l’importanza di una buona base tecnica per quanto riguarda le tecnologie web, essendo il web il nostro principale supporto di pubblicazione. Non è sempre fondamentale saper programmare, ma è indispensabile sapere cosa si può fare con il codice. Abbiamo preso in prestito la filosofia dell’open source e dell’approccio Wikipedia, di un modello basato su progetti e riflessioni all’interno e intorno a comunità di persone e interessi, caratterizzate dalla massima trasparenza e condivisione interna ed esterna. Non per niente siamo attivisti di Spaghetti Open Data e in generale del movimento Open Data italiano e lavoriamo in coprogettazione con realtà internazionali analoghe alla nostra e molto affermate come Journalism++».

Esistono in Italia network o associazioni di data journalism?
«Qui i termini si fanno un po’ confusi. Se per network si intendono gruppi di persone che lavorano insieme, senza necessariamente un riconoscimento ufficiale e/o legale, ce ne sono molti: oltre a noi ci sono i collaboratori “data” di Wired.it, la redazione di Datajournalism.it, i team vincitori della Stampa Academy, l’osservatorio DataJCrew, il duo di Datifatti.it, l’amico Carlo Romagnoli con Data Reporting News. Se invece si intende qualcosa di più strutturato, come associazioni vere e proprie, cooperative o altre forme giuridiche di questo tipo, probabilmente non c’è nulla esclusivamente dedicato al data journalism. La cooperativa F5, per esempio, ma anche la stessa formicablu, si occupano di giornalismo, a volte anche basato sui dati. Ci sono molti altri soggetti che hanno a che fare con l’open data o la gestione e analisi dei dati, ma non hanno un profilo esclusivamente giornalistico».

Il Data Journalism è un lavoro di squadra e c’è bisogno anche di figure professionali diverse dai giornalisti. Quali?
«Per un singolo professionista è quasi impossibile maneggiare allo stesso livello tutte le competenze coinvolte in una classica inchiesta di data journalism. Il profilo giornalistico è necessario per capire dove stanno le notizie, che taglio dare alla narrazione, su cosa concentrarsi e cosa invece tralasciare in un dataset complesso. Maneggiare e analizzare i dati invece richiede sicuramente buone competenze informatiche (non si fanno calcoli a mano), ma soprattutto buone capacità matematiche e statistiche e conoscenza delle possibili operazioni che si possono applicare ai dati. Nel racconto della storia, poi, la visualizzazione dei dati è un mezzo espressivo molto potente e per usarlo al meglio è necessario avere competenze di grafica e design, oltre che di UX (User Experience) se si tratta di grafiche interattive su web. E infine, avendo sempre a che fare con tecnologie digitali, non si può prescindere da uno sviluppatore che sappia maneggiare diversi linguaggi di programmazione e produrre materialmente le visualizzazioni, le applicazioni, le pagine web, ecc.».

Quali sono i vostri prossimi progetti?
«Siamo in questi giorni impegnati su un filone di lavori dedicati al mondiale di calcio insieme ad altri colleghi (http://stories.dataninja.it/sport/). Stiamo lavorando a un progetto per aprire definitivamente i dati sui beni confiscati alla criminalità organizzata e poterci così costruire narrazioni e inchieste, oltre che coinvolgere il mondo delle associazioni e delle istituzioni (http://www.confiscatibene.it). Siamo coinvolti in uno dei progetti finanziati nell’ultima tornata dei Journalism Grants banditi dall’EJC. Abbiamo poi la nostra attività di formazione sul data journalism assieme agli ODG regionali e a diverse istituzioni pubbliche. Stiamo anche seguendo con interesse l’evoluzione del sensor-based journalism, ancora poco noto in Italia, che si basa sull’uso di sensori e di elettronica a basso costo per raccogliere e analizzare dati, soprattutto in ambito ambientale. Un caso interessante in tal senso è “Acqualta”, progetto di monitoraggio civico del livello dell’acqua a Venezia (http://www.acqualta.org/)

Poveri innovatori

FOTO 2Esce in Italia “Jugaad Innovation”, pubblicato da Rubettino. Un libro rivoluzionario, che ha avuto un enorme successo all’estero. Jugaad è una parola che in hindi descrive un processo di innovazione che proviene dal basso ed è in grado di creare soluzioni efficienti a costi contenuti, una vera e propria “rivoluzione culturale” che sfida i modelli di produzione dell’Occidente.
Come si racconta nel libro, molti CEO di grandi aziende spingono i dipendenti a liberare la loro creatività e a inventare modi frugali e sostenibili per dare un significativo valore aggiunto agli stakeholders, usando meno risorse naturali e risparmiando capitale della compagnia. Grazie ai numerosi case studies riportati, “Jugaad Innovation” costituisce un vero e proprio “manuale di sopravvivenza” per le aziende occidentali e un viaggio nei meandri dei mercati emergenti. L’edizione italiana di Rubettino è a cura di Giovanni Lo Storto e Leonardo Previ. La prefazione è di Federico Rampini, una delle firme più prestigiose di “Repubblica”, grande conoscitore, oltre che degli Stati Uniti e della Cina, dello straordinario universo indiano. “In questo periodo – scrive Rampini – non è facile convincere un italiano che noi abbiamo qualcosa da imparare dall’India contemporanea. Questo saggio sull’innovazione Jugaad è il modo migliore per provarci, prendendo in contropiede pregiudizi e stereotipi”. Pubblichiamo un ampio estratto della prefazione.

di Federico Rampini

FOTO 1La prima volta che mi sono imbattuto in una innovazione Jugaad, questa aveva l’aspetto dimesso di un elettrodomestico low cost. Per la precisione una lavatrice da cinquanta euro, della marca Videocon. Un apparecchio plebiscitato dalle massaie indiane non solo per il basso costo, ma per un altro aspetto che lo rende prezioso: una speciale memoria elettronica programmata per neutralizzare i blackout elettrici, e consentire al programma di lavaggio di riprendere indisturbato là dove si era interrotto, non appena la corrente torna (magari molte ore dopo). È un esempio emblematico.

Si tratta di un’innovazione stimolata da due ostacoli, due difficoltà: il basso potere d’acquisto da una parte, l’inaffidabilità dell’energia elettrica dall’altra. Due anomalie indiane, a prima vista? In realtà quel tipo di innovazione Jugaad si rivela perfettamente adatta a rispondere ai bisogni e alle restrizioni di una vastissima platea di consumatori: il ceto medio delle nazioni emergenti. Un ceto medio molto meno abbiente del nostro. E tuttavia desideroso di affacciarsi ai primi comfort moderni che sono gli elettrodomestici, l’automobile o la moto, il turismo di massa, l’istruzione avanzata, e così via.

È nella piccola borghesia asiatica, latinoamericana, sudafricana, che ci sono le prospettive di crescita dei consumi più forti nei prossimi decenni. Nessun’azienda che voglia fare strategie di medio-lungo periodo, può ignorare quel formidabile serbatoio di potenzialità. Inoltre un effetto della Grande Contrazione iniziata nel 2008, è che anche nei Paesi avanzati dell’Occidente siamo in una fase di stagnazione del potere d’acquisto. Di conseguenza i temi del “consumo frugale” sono attuali anche per noi, non solo per il ceto medio cinese o indiano, brasiliano o sudafricano. Ecco perché negli Stati Uniti e in Inghilterra ha ricevuto tanta attenzione questo saggio, che spiega agli occidentali che cos’è l’innovazione Jugaad e quanto può essere utile anche per noi.

Jugaad è un vocabolo hindi (o anche urdu, l’idioma-gemello dell’hindi usato in Pakistan), indica un’idea che serve a risolvere rapidamente un problema. Spesso è una scorciatoia, un espediente improvvisato per aggirare un ostacolo. Evoca quella che per noi italiani è l’arte di arrangiarsi: la necessità di usare l’ingegno per sopperire alla mancanza di risorse, all’inefficienza, ai mille ostacoli di una realtà arretrata. C’è anche un oggetto specifico che in India viene chiamato Jugaad: è una sorta di camion, diffuso nelle zone rurali più povere, che viene assemblato dai falegnami montando un motore diesel su un vecchio carro-buoi. I tre autori di questo libro sono di origine indiana, conoscono bene quel Paese, ma hanno avuto brillanti carriere in Occidente. Navi Radjou fa il consulente strategico nella Silicon Valley californiana. Jaideep Prabhu è docente alla Business School di Cambridge in Inghilterra. Simone Ahuja è un’imprenditrice, fondatrice della sua società di consulenza, con sedi a Minneapolis negli Stati Uniti e a Mumbai in India. È stata anche la produttrice di un fortunato documentario televisivo sui temi dell’innovazione. Una tesi centrale del loro saggio è quella che l’innovazione di tipo Jugaad, creativa e al tempo stesso frugale, non è utile solo nelle nazioni emergenti. Dobbiamo fare prova di umiltà, e impararne gli ingredienti anche noi: vuoi perché il futuro delle nostre imprese e delle nostre economie dipende dalla nostra capacità di interpretare i bisogni delle nazioni emergenti; vuoi perché noi stessi siamo entrati in un’Età Frugale e i consumatori dei Paesi occidentali hanno bisogno di risposte nuove ai loro bisogni.

FOTO 3I tre autori cominciarono a studiare il modello indiano e quello di altre nazioni emergenti tanti anni fa, in cerca di quella strategia alternativa all’innovazione. Un conto è fare ricerca e sviluppo in un laboratorio modernissimo, ricco di fondi, nella Silicon Valley. Altro è tentare di innovare in mezzo al caos, all’imprevedibilità di una società emergente come quella indiana, o brasiliana. E tuttavia alcune delle innovazioni nate in quei contesti hanno avuto una diffusione vastissima e rapida: perché le nuove tecnologie digitali hanno abbattuto barriere e distanze, consentendo all’idea vincente di viaggiare con la velocità della luce. La soluzione che si adatta ai bisogni della massaia indiana è la stessa che può conquistare istantaneamente centinaia di milioni di consumatrici africane. L’innovazione Jugaad nasce da un rovesciamento di approccio: la scarsità di risorse, gli ostacoli economici, la mancanza di infrastrutture, la burocrazia inefficiente, si trasformano in opportunità perché diventano altrettanti stimoli. Le soluzioni Jugaad sono prodotti o servizi semplici, essenziali. I consumatori meno abbienti non sono più visti come un mercato minore, o addirittura come popolazioni da aiutare con sussidi e carità, al contrario diventano un motore di sviluppo.

Ratan Tata, patriarca dell’omonima dinastia che è uno dei maggiori imperi economici indiani, diede a modo suo un’interpretazione della Jugaad. Nella ricerca del profitto il gruppo Tata spesso guarda alla parte bassa della piramide sociale, vuole inventare prodotti e servizi adatti a Paesi dove il grosso dei consumatori si situa a livelli di reddito modesti. Ma talvolta, così facendo, azzecca l’innovazione che può far presa anche su mercati più avanzati. La Nano, la prima auto da duemila euro, nacque nei centri di design di Tata. «Voi europei – disse Ratan Tata – credete che per noi sia tutto più facile, perché guardate al vantaggio competitivo del nostro costo del lavoro. Provate a guardare la realtà da un altro punto di vista. È proprio perché il potere d’acquisto del ceto medio indiano è ancora molto basso rispetto al vostro, che noi viviamo sotto una formidabile pressione competitiva, siamo costretti a raggiungere livelli di efficienza superiori per sfornare prodotti a costi accessibili per i nostri consumatori». Il motofurgone più diffuso in India è l’Ace Tata che fu lanciato con un prezzo di listino inferiore a 4.000 euro. Nello stesso spirito il gruppo Tata lanciò la catena dei motel Ginger con una tariffa iniziale sotto i 20 euro a notte,
e la garanzia di igiene, bagni singoli, wi-fi e aria condizionata in tutte le stanze. (…)

Il 2014 si è aperto all’insegna di una nuova percezione occidentale dell’India. La crisi del 2008, iniziata in America e poi dilagata in Europa, aveva già aperto un ripensamento critico su alcune storture e perversioni della “prima globalizzazione”. La tentazione in Occidente è spesso quella di indicare un colpevole in “Cindia”. La crescita di nuove classi medie asiatiche e l’esplosione dei loro consumi viene descritta come il colpo di grazia per il pianeta. Per un indiano è duro sentirsi dire che mangia troppo, quando la dieta proteica anche nel ceto medio alto di Mumbai o Bangalore resta la metà dell’americano medio. Lo stesso vale per la nuova abitudine di additare la Cina come il mostro che distrugge gli equilibri ambientali. Non c’è dubbio che l’impatto cinese è devastante sulle risorse naturali, se non cambia modello di sviluppo. Ma in Cina attualmente ci sono dieci automobili ogni mille abitanti; negli Stati Uniti ci sono 480 auto ogni mille abitanti. Temere la crescita delle nazioni asiatiche come una calamità, è disonesto. Con questi atteggiamenti giustifichiamo nei Paesi emergenti l’idea che l’Occidente è una roccaforte di ricchi egoisti, i quali hanno razziato le risorse naturali selvaggiamente, per poi predicare l’ambientalismo, la frugalità e l’austerità ai più poveri. La contesa tra “noi” e “loro” per le risorse naturali sempre più scarse – non solo l’energia ma anche l’acqua, e le terre coltivabili – è reale. Sarà uno dei temi dominanti nei prossimi decenni. Questa corsa può prendere una piega estremamente pericolosa.

L’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger, uno degli osservatori più acuti della politica internazionale, ha scritto: «Il centro di gravità degli affari internazionali si sposta dall’Atlantico al Pacifico e all’Oceano Indiano. Due saranno le tendenze che definiranno la diplomazia nel XXI secolo: il rapporto tra le potenze asiatiche, Cina, India, Giappone e Indonesia, e il rapporto tra Cina e Usa. In passato, simili smottamenti nella struttura del potere generalmente portavano a una guerra».

Per capire cos’è il Nuovo Mondo in cui vivremo noi e i nostri figli, è essenziale osservare ciò che sta accadendo nei luoghi dove il ritmo del cambiamento è più veloce. Queste aree dove avvengono trasformazioni storiche, disegnano i contorni del XXI secolo e ci influenzeranno durevolmente. Sono questi i laboratori del futuro, eppure gli italiani li conoscono ancora poco. Scoprirli ci aiuta a ridurre l’angoscia e le paure irrazionali. Il 2014 è stato segnato dalle forti turbolenze economiche, valutarie e finanziarie che hanno colpito l’India, insieme con tutti i Brics (la sigla che racchiude la cinque maggiori economie emergenti: Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). Fughe di capitali, crolli di Borse, svalutazioni, hanno colpito la rupia indiana e la Borsa di Mumbai, così come Bangkok, Buenos Aires e Istanbul. È finito il lungo “miracolo” di Brics e dintorni? L’India ha pagato il prezzo di una classe politica e amministrativa corrotta, di riforme sempre rinviate, di un apparato burocratico costoso, di una rete infrastrutturale inadeguata. E così via. Per molti occidentali, a un pregiudizio se n’è sostituito un altro.

L’innamoramento per l’India si è ribaltato nel suo opposto. Per gli italiani,mettendo in fila una dopo l’altra notizie come la crisi sui marò, gli stupri, e il tracollo della rupia, l’India è tornata rapidamente a occupare il posto che le spettava fino agli anni Novanta: un gigante malato. In realtà la crisi dei Brics nel 2014 ha cause più generali, alcune delle quali vanno cercate in America. Per descrivere le cause delle fughe di capitali che hanno colpito oltre all’India anche l’Indonesia e la Thailandia, l’Ucraina e il Brasile, l’Argentina e il Sudafrica, il governatore della banca centrale del Brasile, Alexandre Tombini, ha parlato di un “effetto aspirapolvere”. L’aspirapolvere, secondo il banchiere centrale di Brasilia, sono i rialzi dei rendimenti in Occidente. Innescati dalla decisione della Federal Reserve americana di ridimensionare gradualmente il “quantitative easing” (creazione di liquidità attraverso acquisti di bond). Con i rendimenti che diventano più interessanti sia in America sia in Europa per effetto della ripresa (o delle aspettative di ripresa, per l’Europa), tanti capitali speculativi abbandonano le piazze esotiche dove erano affluiti negli ultimi anni. L’alta marea del credito facile si ritira, lo spettacolo che rivela nelle zone rimaste a secco fa paura. Quello che era l’arco della crescita globale, è diventato l’arco di una nuova crisi. Tutto ciò che porta l’etichetta “emergente” diventa sinonimo di fragilità improvvisa. I dollari stampati a Washington avevano allagato il pianeta, gonfiato bolle speculative da Shanghai a Johannesburg, da Istanbul a San Paolo.

Bei tempi, quando il ministro brasiliano dell’economia Guido Mantega si lamentava per la “guerra delle valute”, cioè la svalutazione competitiva del dollaro, effetto collaterale della massiccia liquidità. Erano tempi in cui i Brics ricevevano troppi capitali, pertanto i loro mercati immobiliari, le loro Borse e le loro monete si rafforzavano troppo. Oggi è in atto il movimento inverso. Con la bassa marea i capitali rifluiscono, abbandonano le piazze calde. Le nazioni più vulnerabili sono quelle che negli anni d’oro investirono troppo e male, con progetti faraonici, spesso occasioni per vaste corruzioni.

Sull’innovazione Jugaad si sono levate delle voci critiche anche ai vertici del capitalismo indiano. Lo spirito autocritico non manca, in quel Paese. E così, quando il corrispondente del «Financial Times» a Mumbai, James Crabtree, intervistò il grande imprenditore Anand Mahindra (a capo di un impero equivalente a quello dei Tata come dimensioni), quest’ultimo ebbe dei giudizi molto duri sulla Jugaad. Se applicata ai giganteschi problemi dell’India, disse Mahindra, la Jugaad rischia di essere una legittimazione di soluzioni di serie B, improvvisazioni che non curano il male. Va anche ricordato che il camion Jugaad – quello assemblato dai falegnami montando un motore diesel su un carro agricolo – è stato messo sotto accusa in India per la scarsa sicurezza, l’inaffidabilità, gli incidenti mortali. C’è una Jugaad buona e una Jugaad cattiva. L’arte di arrangiarsi può stimolare la creatività, oppure il pressapochismo. È un tema che noi italiani possiamo capire.

Gli americani non cadono nello schematismo e nella semplificazione eccessiva, che porta tanti italiani a passare da un estremo di innamoramento verso l’India, all’estremo opposto della sua esecrazione. Forse qui negli Stati Uniti dove io vivo, aiuta il fatto che gli indiani sono una élite di straordinario successo. Proprio come i tre autori di questo saggio sulla Jugaad. Sono meno dell’1% della popolazione americana, eppure gli indiani scalano i vertici del capitalismo americano, dilagano al comando delle maggiori aziende. La Microsoft ha nominato uno di loro, Satya Nadella, come nuovo chief executive all’inizio del 2014. L’incarico che fu di Bill Gates e Steve Ballmer, ora è occupato da un ex allievo del liceo statale di Hyderabad nello Stato dell’Andhra Pradesh. A 46 anni, Satya Nadella è già un veterano della Microsoft, cominciò a lavorarci nel 1992,mentre frequentava il Master della Business School di Chicago con un pendolarismo da supermaratoneta (andava a Chicago quasi ogni weekend, 4 ore di volo dal quartier generale Microsoft vicino a Seattle). Nadella ora è il capo di un colosso di centomila dipendenti, una delle più grandi società americane per capitalizzazione di Borsa.

La notizia della sua nomina ha scatenato l’entusiasmo nella sua città natale, Hyderabad. Nadella si unisce a una folta schiera di suoi connazionali che occupano posti di potere nel capitalismo Usa. Solo nella Silicon Valley, le start-up tecnologiche fondate da imprenditori indiani sfiorano il 15% del totale. Contando i chief executive, tra i più celebri ci sono Indra Nooyi alla guida della Pepsi Cola; Shantanu Narayen di Adobe Systems; Francisco D’Souza di Cognizant Technology Solutions; SanjayMehrota di San Disk; Ravichandra Saligram di Office Max; Dinesh Paliwal di Harman International Industries. A Wall Street la Citigroup era guidata dall’indiano Vikram Pandit.
Se c’è una lezione più generale da apprendere, che ci riconduce al tema della Jugaad: bisogna rifuggire dalla pigrizia intellettuale, che ci rende incapaci di generare il cambiamento.

New York, 20 febbraio 2014

 

Scaletta della puntata del 16 aprile 2014

Introduzione Carlo Freccero

A questo punto dò la parola a Carlotta Balena che ha analizzato il tema del nostro format. La manipolazione: cos è, dove si nasconde e perché. È questo quello che cercheremo di capire in ogni nostra puntata di questo format.

Carlotta Balena: La manipolazione avviene sul contenuto ma anche sulla forma, passa sia per il cosa viene detto sia per il come viene detto. Una notizia può essere deliberatamente falsificata, la si può dare solo in parte, si può scegliere di non dirla proprio, o dirla con un linguaggio criptico, difficile da capire. Se il pubblico non capisce, non sa, non conosce di cosa stiamo parlando. E non è informato.

I media hanno il potere di suggerire ai cittadini intorno a che cosa pensare, ed offrono una lista di argomenti sui quali avere un’opinione e discutere. In altre parole direzionano l’opinione pubblica.

Quello su cui però bisogna riflettere è il fatto che per essere veramente efficace, la manipolazione implica sempre un coinvolgimento attivo del pubblico.

SERVIZIO CARLOTTA BALENA, LA MANIPOLAZIONE …………………………1

Naturalmente oggi parliamo di Ucraina e per affrontare questo tema abbiamo voluti avere con noi degli esperti, Lucio Caracciolo, direttore della più grande rivista di geopolitica italiana, Limes, e Sergio Romano, ambasciatore italiano in Russia, oggi firma del Corriere della Sera.
Due attenti osservatori della realtà, a abbiamo scelto di affiancare quella di altri due grandi interpreti della modernità, dalle visioni del tutto contrapposte.
Edward Nicolae Luttwak, economista, politologo e saggista conosciuto per le sue pubblicazioni sulla strategia militare e politica estera. E ancora Giulietto Chiesa, giornalista ed esperto di tesi complottistiche.

Antonello Paciolla: Forse come inizio sarà un po’ faticoso, ma dobbiamo partire dalla storia, dalla storia dell’Ucraina. Solo conoscendo le complesse vicende della regione, soprattutto quelle del Novecento, possiamo comprendere la crisi in Crimea. Ne abbiamo parlato con Sergio Romano, storico, editorialista del Corriere della Sera ed ex ambasciatore italiano a Mosca

SERVIZIO ROMANO, PANORAMA STORICO……………………………………………2

Ma passiamo dalla storia all’attualità, a questa crisi che ha scosso le coscienze del mondo. Come nasce? Michele Raviart che assieme ai suoi colleghi Carlotta Balena e Luca Serafini lo ha chiesto a Lucio Caracciolo

Michele Raviart: abbiamo chiesto a Lucio Caracciolo, direttore di Limes, la più conosciuta rivista di geopolitica in Italia, quali siano stati i passaggi di questa crisi, del perché si è evoluta e cosa ci ha lasciato.

SERVIZIO CARACCIOLO, TAPPE RIVOLUZIONE…………………………………………3

Il protagonista di tutta questa crisi è uno solo: Putin. Nicole Di Giulio e Nicola Mechelli ne hanno fatto un ritratto per noi.

Nicole Di Giulio: il protagonista delle crisi ucraina è il presidente russo Vladimir Putin. Ha coniato la sua immagine in modo da conquistare il popolo russo, nonostante le proteste non manchino. Non è riuscito a farsi amare in occidente. Una scelta forse, voluta? Diversamente di Barack Obama che con il suo sorriso e i suoi discorsi piace a tutti. Un idealismo mediatico, quello di Obama, che ha conquistato il mondo, dagli Usa all’America Latina, dall’Africa all’Asia.
Io e Nicola Mechelli ne abbiamo fatto un ritratto, la sua storia e i suoi lati oscuri visti attraverso i nostri occhi

SERVIZIO PUTIN..…………………………………………………………………………4

È proprio così che entriamo nel vivo del dibattito, che prima di tutto contrappone gli Stati Uniti alla Russia, che contrappone tesi geopolitiche e scelte economiche.
Edward Nicolae Luttwak, economista, politologo e saggista conosciuto per le sue pubblicazioni sulla strategia militare e politica estera E Giulietto Chiesa, un giornalista della Stampa che ha lavorato in Russia per anni. Oggi si occupa di complotti e controinformazione.
Il rosso e il nero, senza nessun riferimento politico, sono stati intervistati da Lorenzo Grighi e Antonello Paciolla

Lorenzo Grighi: Qual è il vero piano della Russia? E’ davvero quello di annettere tutta l’Ucraina, come si ripete tra i media occidentali? Edward Luttwak e Giulietto Chiesa danno una lettura della situazione molto diversa tra loro…

SERVIZIO LUTTWAK- CHIESA………………………………………………………………5

Contro Putin non c’è un leader. C’è l’Europa, ma soprattutto la rivoluzione. Chi sa davvero cosa è avvenuto in Piazza. È importante a questo punto presentare il diario di un fotogiornalista che ha seguito la rivolta. Ci racconta una storia, delle storie, che nessuno ha raccontato. Per noi lo ha intervistato Laura Aguzzi

Laura Aguzzi e Carlo Freccero: Tu che conosci Jacob, un tuo amico, raccontaci come ha seguito la rivoluzione, cosa ha visto

Laura Aguzzi: Jacob Balzani Lööv è un fotogiornalista e uno scrittore, ed ha avuto modo di fare qualcosa che non si fa più nel giornalismo odierno. Lo sappiamo, inviati e corrispondenti costano, non c’è spazio per l’approfondimento e l’esperienza umana. Si arriva in un posto e si fa una cronaca sulla base di ciò che si può osservare nei pochi giorni, a volte nelle poche ore di permanenza. Ecco Jacob ha avuto modo di seguire la rivoluzione ucraina dall’inizio, fin dal suo incipit, vivendo fianco a fianco con i suoi protagonisti. In quest’intervista, realizzata il 28 marzo da piazza Maidan, ci racconta cosa ha visto e che impressione ha ora di un paese sull’orlo di una guerra civile.

SERVIZIO FOTOGIORNALISTA………………………………………………………………6

Un vera e propria guerra, raccontata dai media. Ed è da qui che parte il nostro approfondimento. Ma quale è stato il loro ruolo in Ucraina?

Michele Raviart: Ogni guerra è anche una guerra di informazione, come ci ha spiegato Lucio Caracciolo.

SERVIZIO CARACCIOLO, MEDIA……………………………………………………………7

Parliamo appunto di media, di media italiani. Vediamo i nostri media italiani. Soprattutto la tv italiana. Ha vissuto l’inizio della crisi quando in Italia stava cambiando il Governo. Inizialmente l’Ucraina è stata complementare, di sfondo alla politica di palazzo.
Lucina Paternesi e Alessia Marzi hanno analizzato come i telegiornali ha trattato la rivoluzione

Lucina Paternesi: Sui media italiani negli ultimi mesi è andata in onda la telenovela di Kiev. Ma che cosa è accaduto veramente a piazza Maidan e in tutta l’Ucraina forse i teleascoltatori italiani non lo capiranno mai. E probabilmente perché gli stessi media italiani non l’hanno mai capito .
E’ il 21 novembre quando scoppia la protesta a piazza Maidan, e inizialmente in Italia solo il Tg La7 percepisce che in Ucraina sta accadendo qualcosa. Gli altri telegiornali nazionali, nell’edizione della sera, se ne interesseranno solo qualche settimana dopo, quando iniziano a cadere i simboli del potere russo sull’intera regione.
Poi ancora, a natale viene brutalmente picchiata una giornalista filo europeista. Saranno solo il Tg 3 e il Tg La 7 a raccontarci di Tetiana Chornovol.
A febbraio Kiev è teatro di una brutale guerra civile: ma nessuno in Italia spiega chi muore in piazza Indipendenza. Chi sono, cosa vogliono, perché continuano a presidiare i palazzi del potere e si lasciano uccidere. A scorrere i vari titoli dei principali tg a parlare sembra un’unica voce. Con qualche, rara e preziosa eccezione.
Poi l’atto di forza, il referendum e la Crimea che torna ad essere russa. Tutti i telegiornali in prima fila a dare spazio alle reazioni di Obama, Nato e Unione Europea: siamo pronti a reagire, la Russia incorrerà in sanzioni, la paura di rimanere a corto di gas mascherano in realtà la totale assenza di forza delle istituzioni europee e della nato di fronte a un dato di fatto. Putin, ha vinto.

SERVIZIO TG ………………………………………………………………………………8

Ma c’è anche chi ha trattato l’Ucraina in modo diverso, offrendo un altro punto di vista. Ne hanno avuto esperienza Caterina Villa e Michela Mancini.

Caterina Villa: Il racconto fatto dai media televisivi italiani è stato superficiale e univoco, tuttavia ci sono delle eccezioni. La più lampante è il lavoro di Lucia Goracci. A differenza delle testate generaliste, l’inviata di Rainews24 non si è fermata al mero racconto dei fatti di cronaca, è riuscita, invece ad entrare in profondità, nel tessuto quindi, della società civile che ha vissuto il conflitto in Crimea. Un servizio trasmesso il 20 marzo ne è la prova. La Goracci ha deciso di portare lo spettatore dentro una scuola di musica a Sinferopoli. Un posto “altro”, dove bambini ucraini, tatari, russi continuano a convivere quotidianamente nonostante tutto. Il servizio offre un punto di vista completamente diverso, capace di far comprendere a chi guarda la complessità di quei giorni, ben oltre la narrazione del conflitto, la Goracci racconta gli essere umani.

SERVIZIO LUCIA GORACCI ………………………………………………………………9

Michela Mancini: Quello che abbiamo imparato chiacchierando con Lucia è che per fare davvero bene il mestiere di inviato bisogna quanto più possibile scomparire dietro i fatti per lasciare parlare le immagini. Nel giornalismo televisivo devi lavorare a togliere. Scegliere una porzione di realtà e lasciarla vivere davanti la telecamera. Senza aggiungere commenti.

Dall’Italia all’estero. Abbiamo avuto un assaggio di come si sia comportata l’informazione italiana, ora invece cerchiamo di capire come la tv straniera ha scelto di coprire l’evento. Manlio Grossi e Giulia Sabella hanno analizzato per giorni le reti russe e quelle americane.

Manlio Grossi: Quello in Ucraina è stato anche uno scontro mediatico. Due delle maggiori potenze mondiali, Stati Uniti e Russia, hanno degli interessi su questo territorio e per loro è importante riuscire a portare dalla propria parte l’opinione pubblica nazionale e internazionale.
Putin, come hanno dimostrato anche le olimpiadi invernali di Sochi, vuole dare l’immagine di una grande Russia, mentre gli Stati Uniti, dal canto loro, si ergono a difensori della democrazia e dei popoli oppressi.
Non stupisce quindi che guardando i Tg russi e statunitensi ci si trovi di fronte a scenari molto diversi.

SERVIZIO MEDIA STRANIERI……………………………………………………………10

Giulia Sabella: La differenza tra informazione e propaganda non è sempre ben definita e la stessa indipendenza dei giornalisti è in dubbio

Dissenso e propaganda, Affrontiamo due casi particolari che sono l’emblema di uno scontro mediatico che non si gioca solo sulle notizie. Sentiamo Sophie Tavernese, che con Laura Aguzzi ha approfondito alcuni particolarissimi fatti di cronaca: ad esempio quello di una giornalista che si dimette in diretta perché non condivide come la propria testata ha scelto di parlare dell’Ucraina.

Sophie Tavernese: Uno scontro mediatico in cui le strumentalizzazioni non hanno riguardato solo le notizie. Gli stessi programmi televisivi sono stati usati da giornalisti americani e russi per sostenere le loro posizioni o forse anche solo per avere più visibilità.

SERVIZIO DIMISSIONI………………………………………………………………………11

Michele Raviart: Toni da guerra fredda quelli utilizzati per parlare di Ucraina. E c’è chi parla addirittura di un vero e proprio ritorno alla guerra fredda. Ma è veramente così? Lo abbiamo chiesto a Lucio Caracciolo

SERVIZIO CARACCIOLO, RAPPORTI AMERICA USA …………………………………12

America e Russia, rapporti da sempre complessi che nascondono aspetti prettamente economici. È proprio di economia che ora parleremo, di ciò che ha contribuito a far esplodere il caso dell’Ucraina.
Abbiamo preparato un focus che va oltre la schiuma dell’informazione. Alessandro Orfei e Antonella Spinelli lo hanno fatto per noi

Alessandro Orfei: Sullo sfondo della crisi in Ucraina un grande gioco di interessi economici. Dall’Ucraina infatti passa gran parte del gas russo diretto in Europa e l’annessione della Crimea alla Russia potrebbe addirittura far cambiare il percorso del gasdotto Southstream. Ma in questo gioco ci sono anche gli Stati Uniti, che non vedono bene il Southstream perché puntano a sostituirsi alla Russia come fornitore di gas per l’Europa attraverso lo shale gas. Un gas che si ottiene dalla frantumazione di argille. Il tutto a partire dai prossimi anni. Infatti al momento l’estrazione di questo gas è impegnativa, richiede trattamenti altamente inquinanti.
Vediamo il servizio

SERVIZIO ECONOMIA, GASDOTTI ……………………………………………………13

Non solo gas. L’economia ucraina è fatta di rapporti complessi, in bilico tra le dinamiche economiche europee e quelle russe

Antonello Paciolla: Sì, le differenze tra Ucraina orientale e Ucraina occidentale, infatti, non sono solo etniche e culturali, ma anche economiche. Sentiamo ancora Sergio Romano

SERVIZIO ROMANO, ECONOMIA UCRAINA…………………………………………14

I rapporti economici di cui abbiamo parlato, vengono ridotti a punti di vista a dir poco manichei, dai nostri due commentatori, Edward Nicolae Luttwak e Giulietto Chiesa. Valutazioni opposte e inconciliabili che non posso far altro che far riflettere.

Lorenzo Grighi: Il gas sembra essere, secondo molti, il vero ago della bilancia nel confronto tra Russia e Stati Uniti. Ma per capire meglio come stanno le cose sentiamo il parere dei nostri esperti Luttwak e Chiesa

SERVIZIO LUTTWAK- CHIESA, GASDOTTI…………………………………………15

Davanti a questa complessità di tesi e interpretazioni, vediamo come si è comportato il web: Cecilia Bacci e Alessandra Borella hanno analizzato ciò che la rete ha offerto, e hanno scelto di occuparsi di fact checking.

Cecilia Bacci: fra i tanti siti che abbiamo esaminato abbiamo fatto una scelta particolare. Di raccontare l’analisi di chi si è sentito attaccato da un informazione di propaganda.
Introduce “Stopfake” spiegando che cos’è e come funziona (clip del sito)

Alessandra Borella: “Chi c’è dietro Stopfake? Chi sono? Innanzitutto giornalisti, una community di ex studenti della scuola di giornalismo di Kiev. Sono 15 e fanno di tutto, in un settimana milioni di visualizzazioni

CLIP YOUTUBE STOPFAKENEWS………………………………………………………16

Lancia una clip di Youtube di 15″ (le Stopfakenews) lo schermo va in freeze sul volto di Margo (tutto in post-produzione)

Alessandra Borella: Queste le news che hanno caricato questi ragazzi. Sulla sinistra vedete Margo Gontar, 25 anni, una dei confondatori del sito. La abbiamo intervistata, sentiamo dalla sua voce cosa pensa della crisi in Crimea.

Clip audio intervista Margo con voce originale e traduzione in italiano di Alessandra (1 minuto, in post produzione, sullo schermo andrà il parlato in typewriting)

INTERVISTA MARGO, DOPPIATA DA ALESSANDRA…………………………………17

Alessandra Borella: Ecco chi sono e che cos’è Stopfake. Sono giovani patriottici, sono giornalisti ma anche cittadini ucraini. Sono forse troppo coinvolti? Vediamo i cittadini come hanno usato il web e i social

Cecilia Bacci: Anche i cittadini hanno raccontato la protesta sul web. Il problema, per i giornalisti che utilizzano questi materiali, è la verifica delle fonti

SERVIZIO DIRETTE STREMING…………………………………………………………18

Il web è la moltitudine dei punti di vista, è polifonico. Ma è anche controinformazione. Sentiamo perché con Antonio Bonanata.

Antonio Bonanata: “Le marionette di Maidan”: è questo il titolo del video, postato su Youtube e ritwittato dal portavoce del primo ministro russo, che riproduce l’audio di una conversazione telefonica avvenuta a fine gennaio tra Victoria Nuland, ambasciatrice degli Stati Uniti con delega ai rapporti europei, e Geoffrey Pyatt, rappresentante del governo di Washington a Kiev.

Un’intercettazione da “guerra fredda” nel bel mezzo della crisi Ucraina, che ha messo in forte imbarazzo l’amministrazione Obama. Sentiamo perché …

VIDEO AUDIO NULAND……………………………………………………………………19

Antonio Bonanata: In poche ore questo scoop ha fatto il giro della rete provocando un incidente diplomatico, l’ennesimo, tra la Germania e gli Stati Uniti. La cancelleria Merkel, infatti, ha definito “assolutamente inaccettabili” le parole dell’ambasciatrice statunitense. Immediate le scuse a tutti i principali leader europei.

Ma chi sono i protagonisti del video e cosa ci suggeriscono? Victoria Nuland dice di aver parlato con Geoffrey Feltman, sottosegretario Onu agli affari politici, per fare in modo che siano le Nazioni Unite a risolvere la crisi. Hanno pensato per questo a un inviato speciale, l’ambasciatore Robert Serry. Nelle intenzioni degli Usa, infatti, ci sarebbe un piano di pacificazione del paese, con cui bypassare Bruxelles.
Il “Fuck the Eu” esprime benissimo il consueto stile con cui gli Stati Uniti sono soliti trattare le crisi straniere. Come se fossimo davvero ai tempi della Guerra Fredda: America e Russia giocano i ruoli principali e l’Europa è relegata a semplice comprimario.

Un esempio di come L’Europa in questo caso non abbia dimostrato spessore. Di fatto sono gli Usa a contrapporsi alla Russia. Anche in questo caso il web è luogo di complotti, di indiscrezioni, valutazioni geopolitiche

Federico Frigeri: Una notizia che ha iniziato a circolare negli ultimi giorni – dapprima un po’ ai margini del web e poi via via ripresa da numerosi blog e siti di controinformazione – prefigura uno scenario da conflitto finanziario con la nascita di una nuova moneta, come risultato di un asse sino-russo per marginalizzare il dollaro. L’avvicinamento tra le due potenze si è già registrato negli ultimi mesi per motivi energetici – la Russia è ricca di materie prime e bisognosa di soldi, l’esatto contrario della Cina.
Quello che il web arriva ad ipotizzare è un nuovo ordine valutario, una riedizione in salsa asiatica del gold standard system, che potrebbe essere allargato anche all’India (anche è una storica alleata degli USA). Tre monete – yuan, rupia e rublo – quest’ultimo lo ricordiamo ad oggi è precipitato ai minimi storici con una contrazione del 10% sul dollaro – sarebbero pronte a coalizzarsi per mettere in discussione l’egemonia statunitense. Questa notizia, di cui non c’è traccia nei siti italiani, è vista con molto scetticismo dall’informazione ufficiale, può essere falsa, ma sicuramente muove da alcuni elementi che sono sotto gli occhi di tutti. Primo: le sanzioni contro la Russia e la decisioni di compagnie come visa e mastercard di sospendere i servizi ai clienti di alcune banche russe. Poi la decisione delle tre principali agenzie di rating di declassare il debito russo, primo tassello di una guerra economica. Infine l’accordo proprio di questa settimana della Banca popolare di Cina con la Bundesbank per regolare le transazioni solo in yuan ed euro. Insomma, mai come oggi Russia e Cina sono state vicine. Insieme, contro l’odiato dollaro

Polifonia, moltitudine, controinformazione e scenari futuri. È evidente come su internet non ci siano regole, la chiave stia nella competenza dell’internauta. Il giornalista, ora più che mai, è il mediatore essenziale tra questa vastità di informazioni e il pubblico che vuole capire cosa gli accade intorno

Partiamo da qui, e andiamo a vedere come si è comportata la carta stampata attraverso gli occhi di due inviati.

Edoardo Cozza: Daniele Raineri, esperto di esteri del Foglio, è stato inviato in Ucraina. Ha deciso di partire per andare a verificare sul campo se le notizie riportate da blog e siti di controinformazione fossero reali. Ha scoperto, invece, che quanto stava accadendo spesso era difforme. E sulla professionalità dei giornalisti esteri, Raineri conferma che fuori dall’Italia sono richiesti uno standard alto e precisione: regole semplici, ma che in Italia i suoi colleghi faticano a seguire

SERVIZIO COZZA, INTERVISTA RAINERI…………………………………………20

Valentina Rossini invece ha intervistato per noi un altro giornalista, inviato a Kiev per la sua testata

Valentina Rossini: parlando con Alessandro Farruggia, inviato in Ucraina per QN, ho rilevato come la stampa italiana abbia sposato una causa ben precisa, quella filoeuropea. Anche e soprattutto alla vigilia del referendum in Crimea

SERVIZIO ROSSINI, INTERVISTA FARRUGGIA…………………………………………21

Apriamo proprio qui una parentesi sulla Crimea, e sul referendum. Un fatto di cronaca che ha aperto un grande dibattito. È Una forma di annessione o espressione di volontà popolare, di autodeterminazione dei popoli?
In pochi hanno cercate di dare delle risposte facendo riferimento al referendum del Kosovo, che di fatto, al livello di diritto internazionale, ha creato un precedente in grado di legittimare ciò che è accaduto in Crime
Abbiamo sentito Gregory Alegi, docente di storia americana della Luiss, che apre questo parallelismo tra il referendum del Kosovo e quello in Crimea.

Su questo argomento si sono schierati anche Edward Nicolae Luttwak e Giulietto Chiesa

Lorenzo Grighi: Il Kosovo si rese indipendente dalla Serbia con una risoluzione votata dal parlamento provvisorio nel febbraio 2008. In quel caso l’indipendenza venne riconosciuta da gran parte della comunità internazionale. Il caso della Crimea può essere comparabile? Lo abbiamo chiesto a Gregory Alegi, professore di Storia americana alla Luiss, e ai nostri due esperti Luttwak e Chiesa.

SERVIZIO GREGORY ALEGI………………………………………………………………22

SERVIZIO LUTTWAK CHIESA, KOSOVO ………..……………………………………23

Apriamo l’ultimo capitolo di questa puntata, tutto dedicato alle ideologie. Questo referendum, come tutta la rivoluzione, pone un quesito. Stanno davvero tornando alla ribalta i nazionalismi? Le grandi teorie del 900? Quella che da molti è già considerata archeologia della storia, non lo è.
C’è un nazionalismo russo, un ritorno alle tesi naziste da parte di alcuni gruppi ucraini che mette in allarme, e che va sicuramente approfondito.
Questa crisi fa precipitare la storia non nel 2020, ma nel ‘900. Stiamo davvero precipitando di nuovo in un braccio di ferro tra estremismi? Lo abbiamo chiesto ai nostri esperti, Lucio Caracciolo e Sergio Romano

SERVIZO CARACCIOLO …………………………………………………………………24

SERVIZIO ROMANO ………………………………………………………………………25

Sentiamo chi si è occupato proprio di nazionalismo in Ucraina. Luca Serafini Edoardo Cozza e Giuseppe di Matteo hanno cercato di capire chi si è infiltrato nel movimento di protesta di Piazza Maidan. Un lato della rivoluzione, questo, che l’informazione generalista non ha trattato come avrebbe dovuto.

Giuseppe Di Matteo: partiamo dall’inizio: gli ucraini scendono in piazza a contestare e in poco tempo la rivolta sfugge di mano. Chi sono stati i veri protagonisti della protesta contro Yanukovich? Spesso gli organi d’informazione non hanno approfondito un aspetto che poi si è rivelato tutt’altro che marginale: le infiltrazioni degli ultranazionalisti. Nel servizio curato con Edoardo Cozza e Luca Serafini abbiamo cercato di capirne qualcosa di più

SERVIZIO NEONAZISTI………………………………………………………………………26

Siamo quasi al termine di questa nostra puntata, ma abbiamo voluto dare spazio a un’interpretazione di Edward Nicolae Luttwak che descrivendo il carattere storico e sociologico del popolo russo è riuscito a sintetizzare in una battuta i sentimenti di un popolo eternamente combattuto tra sogni imperialistici e imperativi dettati dalla modernità

SERVIZIO LUTTWAK……………………………………………………………………27

Anna Karenina e Gengis Khan, come ha detto Luttwak. L’attualità si intreccia con la storia in un legame indissolubile. La letteratura invece, come in questo caso, può aiutarci a comprendere il mondo in cui viviamo.
Come in ogni grande narrazione che si rispetti, abbiamo abbandonato il nostro punto di partenza per andare ad esplorare l’economia, la cronaca, la geopolitica, per capire come veniamo informati. Ora vogliamo tornare al nostro punto di partenza, la storia. La storia che passa per le opere e la vita di due grandi scrittori di origine ucraina, ma di fatto patrimonio della cultura russa.

Antonio Bonanata: ho cercato di far capire che anche la cultura è oggetto di manipolazione. Gogol e Bulgakov sono due scrittori nati in Ucraina, ma che, di fatto, fanno parte del patrimonio culturale russo

SERVIZIO CULTURA………………………………………………………………………27

Abbiamo visto come i media hanno raccontato quello che è accaduto e che sta accadendo in Ucraina. Ma come hanno vissuto questi eventi i diretti interessati?

Giulia Sabella: Abbiamo qui con noi degli ospiti: Lara e Lyudnyla sono nate in Ucraina e hanno lasciato il proprio Paese più di dieci anni fa per venire a lavorare qui in Italia. Meroslava e Svitlana invece sono due ragazze giovani, stanno ancora studiando. Anche loro sono nate in Ucraina ma sono cresciute qui a Perugia.
Alessandra Borella: noi le abbiamo incontrate nella loro vita quotidiana, qui a Perugia.

VIDEO PRESENTAZIONE UCRAINE……………………………………………………28

Dibattito con gli ospiti in studio

DOMANDE:
Come avete saputo della crisi in Ucraina?
Quello che leggete sui giornali e vedete in tv è in linea con quanto vi raccontano gli amici e i parenti rimasti in Ucraina?
Dove cercate le notizie? Quali tg? Quali giornali? Quali siti internet? Ma chi ha espresso al meglio ciò che è accaduto in Ucraina?

DIBATTITO

Conclusione di Carlo Freccero

CHIUSURA PUNTATA E SIGLA

Come misurare il matrimonio tra tv e web?

di Luca Garosi*

second_screenNella storia della comunicazione ogni nuovo medium era percepito sempre come “pericoloso” per quelli più vecchi: la radio rendeva inutile e datata la lettura del giornale quotidiano, la tv doveva farla spegnere, e – infine – il web avrebbe cancellato tutti gli altri media iniziando proprio dalla televisione. Tuttavia questo processo di cannibalizzazione non è avvenuto, anzi secondo un recente studio della Fondazione Rosselli l’incontro tra le modalità comunicative con quelle di internet ha favorito nuove “forme” televisive.

In accordo con la famosa frase del sociologo canadese, Marshall McLuhan, “il mezzo è il messaggio”, la rapida evoluzione tecnologica ha reso possibile la fruizione di nuovi contenuti audiovisivi, non più esclusivi del mezzo televisivo e del salotto di casa non essendo più rigidamente definiti dal palinsesto.

Cambia dunque il modo di fare e guardare la tv. Cambiano le abitudini degli utenti e, di conseguenza, le strategie dei broadcaster. Si sviluppano nuove forme di distribuzione dei contenuti, si moltiplicano i player”, si legge nell’introduzione del libro “Cosa conta?” (il testo a cura della Fondazione Rosselli in collaborazione con Sky).

cosa_contaNel titolo è contenuta la domanda cruciale: cosa conta nella televisione contemporanea? Nello scenario descritto diventa importante chiedersi se possano essere valutate ipotesi differenti di misurazione dell’audience. La domanda viene declinata sotto diversi punti di vista: cosa conta per lo spender, per il pubblico, per il broadcaster.

Secondo la ricerca curata dalla Fondazione Rosselli, il consumo televisivo si evolve in un’ottica cross-mediale, ma la tv continua ad essere un mezzo di intrattenimento universale. La tv non conosce crisi: ha un trend di crescita che dura da anni. In Italia gli utenti della televisione – nel 2013 – continuano a coincidere con la quasi totalità della popolazione (97,3%), mentre il consumo delle web tv ha raggiunto il 22,1% e quello di mobile tv il 6,8%. In pochi anni, si legge ancora nello studio della Fondazione, dal 2007 al 2013 “un terzo del pubblico televisivo ha iniziato a seguire i programmi televisivi attraverso canali e device connessi”.

Gli operatori sono alla ricerca di nuovi modelli di business sostenibili, mentre i brand devono iniziare a fare i conti con le “conversazioni”, generate o spontanee che si generano in rete sui loro prodotti. Ormai il mondo on-line è penetrato nella vita quotidiana: in Italia si passano su internet, in media, 4,7 ore con il computer e 2,2 ore con la connessione mobile. Il tempo speso sui social media è di 2 ore, circa mezz’ora in più della media europea.

cellulare_tvL’aumento dei device connessi, delle app, dei widget per accedere a servizi on-demand e dei Personal Video Recorder ha permesso agli utenti di superare i limiti imposti dalla programmazione lineare, dalle rigidità dei palinsesti tradizionali, e di accedere ai contenuti preferiti dovunque e in qualsiasi momento della giornata.

Una ricerca di Ericsson ConsumerLab mostra come il consumo tradizionale di tv presenti due picchi durante il giorno, al mattino e la sera nel prime time, mantenendosi abbastanza basso durante il resto della giornata. Al contrario il consumo di video si mantiene più alto durante tutto il giorno, divenendo un’attività continua che si svolge ovunque e in ogni momento.

immagine_ericcson_lab

L’ambiente mediale entro cui oggi si realizza la fruizione televisiva, sta evidenziando degli elementi di novità capaci di far emergere sostanziali contraddizioni rispetto alle metodologie di misurazione sin qui adottate per l’audience. In particolare la moltiplicazione delle piattaforme abilitate alla trasmissione di programmi televisivi; la scomposizione temporale dei palinsesti permessa dai fenomeni di catch-up television; e l’emergere di pratiche di conversazione e d’interazione realizzate dai pubblici in ambienti web riferibili al consumo di contenuti televisivi, hanno totalmente ridefinito gli obiettivi e i territori d’indagine della misurazione televisiva.

Per rispondere a queste nuove sfide, diversi operatori del settore stanno realizzando innovative metodologie di misurazione tese a combinare i dati ricevuti dall’Auditel con quelli raccolti sul web. Un settore rilevante in questo senso è rappresentato dalle metodologie cross-mediali, volte al campionamento di dati riconducibili ad un medesimo contenuto e provenienti da diverse piattaforme (es. tv, pc, smartphone, tablet, console, ecc,).

Un secondo versante altamente significativo in questo ambito è rappresentato dalle ricerche sulle pratiche messe in atto dalle audience. Le più diffuse sono senza dubbio la social media listening e la sentiment analysis. Queste due metodologie vengono principalmente impiegate all’interno dei social network, giacché questi ultimi sono globalmente considerati i luoghi in cui si realizzano il maggior numero di pratiche inerenti il consumo televisivo.

social_media_listeningLa social media listening s’interessa dell’insieme di conversazioni aventi come oggetto un contenuto televisivo (buzz). Attraverso quest’indagine è possibile misurare il numero di post condivisi intorno ad un programma televisivo, la loro provenienza e la tempistica esatta della loro realizzazione. La sentiment analysis è, al contrario, una metodologia computazionale che attraverso algoritmi è capace di individuare le opinioni e i sentimenti espressi dalle audience in un dato un campione di conversazioni.

Il pubblico emotivamente e tecnologicamente coinvolto, “engaged” attraverso app e second screen, è un pubblico più attento ai contenuti (e agli sponsor) di una trasmissione, più fedele, più propenso a rimanere incollato allo schermo anche durante i break per poter continuare le conversazioni sul programma. E si tratta di un pubblico particolarmente prezioso per gli inserzionisti: sia in termini di età (è costituito in larga parte proprio da quelle fasce più giovani, che la televisione cattura con crescente difficoltà), sia in termini di cultura e status sociale.

Non è un target “facile” per un broadcaster, e anche se numericamente meno rilevante rispetto ai grandi numeri prodotti da programmi analoghi sulle reti in chiaro, ha una intrinseca qualità che lo rende sempre più interessante per chi, attraverso un “semplice” programma televisivo, vuole raggiungere una platea tendenzialmente sfuggente, ma estremamente preziosa.

* Luca Garosi è coordinatore didattico della scuola di giornalismo e del centro di formazione di Perugia. Il suo account Twitter è @lucagarosi