Dal nostro “wanted” a Lisbona

di Dennis Redmont

redmontLa mia prima esperienza da corrispondente estero per l’AP è iniziata nel 1965 a Lisbona, in Portogallo. Ero il più giovane corrispondente nella storia dell’AP, e mi trovavo nel paese guidato dal dittatore Antonio de Oliveira Salazar, un economista ininterrottamente al potere dal 1932 che aveva teorizzato l’“Estado Novo”, ossia ladeclinazione portoghese del fascismo di Benito Mussolini.

Come in tutte le dittature che si rispettino, la stampa era sottoposta a una ferrea censura. Non è un caso, dunque, che l’opposizione e il movimento studentesco anti-dittatura leggessero la stampa straniera per informarsi su quello che realmente accadeva nel paese.

Il 28 febbraio 1966 Le Monde pubblica un mio lancio d’agenzia scritto per AFP-AP. Il pezzo parla di due studenti arrestati per attività sovversiva a Lisbona e ricoverati in ospedale in gravi condizioni, probabilmente a seguito di un pestaggio delle forze dell’ordine. Uno degli studenti è Maria Antonetta Coelho, 19 anni, che avrebbe ingerito pezzi di vetro in un presunto tentativo di suicidio. L’altro studente, il 24enne Ruy Despiney, ha una frattura vertebrale.

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Lisbona, murales dedicato a Fernando Pessoa

Pochi giorni dopo la pubblicazione dell’articolo, mentre stavo tornando al mio ufficio in Praca da Alegria (Piazza della Felicità), incontrai i colleghi Marvine Howe del New York Times e l’italiano Aldo Trippini di United Press. “Andiamo a pranzo”, mi dissero. Declinai l’invito (avevo appena pranzato), ma i due insistettero: a quel punto capii che dovevano dirmi qualcosa di delicato.

Non appena svoltammo l’angolo del palazzo, i colleghi mi riferirono che otto agenti della temibile Policia Internacional de Defesa Do Estado (PIDE) mi stavano cercando e che erano già saliti in ufficio chiedendo dove fossi. Fortunatamente, gli agenti non sapevano che aspetto avessi. Io, però, sapevo che da polizia politica del genere non ci si poteva aspettare nulla di buono.

Il PIDE era un corpo di polizia molto detestato in Portogallo, e veniva ripetutamente indicato come il responsabile di torture, uccisioni e sparizioni di attivisti. Oltre alle attività nazionali, il PIDE operava anche nelle colonie portoghesi (Angola, Mozambico, Guinea, Capo Verde, ecc.), dove gruppi di ribelli si stavano rivoltando contro il governo di Lisbona con il supporto del blocco sovietico.

In tutto ciò, un sistema di censura capillare impediva che uscissero notizie sulle guerre coloniali e sulle attività dell’opposizione. A volte le bozze degli articoli dovevano essere spediti alla polizia per l’approvazione, e spesso e volentieri i censori erano fisicamente all’interno delle redazioni dei giornali portoghesi per intimidire i giornalisti.

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Lisbona, la sede del PIDE

Questa convocazione del PIDE, tuttavia, era tutta un’altra storia rispetto ai “richiami” ufficiali. Dopo aver contattato l’ambasciatore americano in Portogallo, George W. Anderson, quest’ultimo mi invitò a passare una notte in ambasciata a puro titolo precauzionale. Il ministro degli esteri portoghese, infatti, aveva fatto allusioni all’ambasciatore Anderson sulla mia presunta “colpevolezza”, e aveva anche aggiunto in tono vagamente minaccioso di non poter garantire la mia incolumità fisica una volta che il PIDE fosse riuscito a trovarmi.

Il mattino successivo, accompagnato da un funzionario del consolato, mi recai spontaneamente al quartier generale del PIDE, situato in Rua Antonio Maria Cardoso. L’edificio – stando ai racconti di militanti comunisti/socialisti e degli studenti – era un vero e proprio centro di tortura, sia fisica che psicologica. Avevo sentito i loro racconti durante le mie visite al “Tribunal da Boa Hora”, che mi servivano a capire in che condizioni operava un’opposizione sotto una dittatura.

Non sapevo ancora che cosa gli agenti cercassero da me; e questo, unito al fatto che avevo passato una notte praticamente insonne, mi rendeva piuttosto nervoso. Una volta entrato nel quartier generale, venni portato in una stanza insonorizzata (le pareti erano ricoperte di un materiale simile a quello dei materassi) con un tavolo al centro e due agenti che mi stavano aspettando. Pensai che volessero mettermi in prigione con qualche accusa falsa o che, se tutto andava bene, sarei stato messo sul primo aereo disponibile e cacciato dal paese.

I due agenti utilizzarono subito la tattica del “poliziotto buono/poliziotto cattivo”, cercando di mettermi in difficoltà e sommergendomi di domande sulla mia vita privata. Ricordo distintamente una lampadina che pendeva dal soffitto e dei suoni attutiti che provenivano da qualche parte, probabilmente fatti apposta per rendermi ancora più nervoso.

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Rua Antonio Maria Cardoso, targa in memoria di vittime del PIDE

L’interrogatorio andò avanti per molte ore in una piccola stanza, con una processione costante di agenti del PIDE. Tra i poliziotti che mi facevano domande (molte erano sulla mia vita privata) riconobbi molti torturatori. A un certo punto ebbi anche “l’onore” di conoscere Antonio Silva Pais, il capo del PIDE, che non riusciva a capacitarsi di come i giornalisti stranieri – che erano trattati così bene dal governo portoghese – potessero scrivere articoli così critici sul paese. Pais non disse che le autorità portoghesi avevano abbandonato l’idea di espellermi – o di causarmi conseguenze più “spiacevoli”. Mi sembrò tuttavia di capire che la sua presenza non indicava la volontà di arrestarmi o espellermi dal paese.

Nel frattempo – ma non potevo saperlo all’epoca – anche il corrispondente dell’AFP, Pinto Basto, era sotto interrogatorio per lo stesso articolo. A differenza mia, però, Basto era stato direttamente arrestato. In carcere, il PIDE gli mostrò due persone “travestite” da studenti per dimostrare che non era successo nulla. Naturalmente, quelle due persone non erano i due studenti torturati.

Dopo l’incontro con Silva Pais fui lasciato libero di andarmene dal quartier generale del PIDE. Il motivo di questo “trattamento di favore” (si fa per dire) era probabilmente da ricercarsi nel fatto che il governo portoghese – in un momento in cui il supporto degli Stati Uniti e della Nato era cruciale alla sua sopravvivenza politica – non voleva ulteriormente inimicarsi la stampa straniera e il governo americano.

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Il dittatore portoghese Antonio De Oliveira Salazar

L’Angola, il Mozambico e la Guinea diventarono indipendenti solo verso la metà degli anni ’70, ma rimangono a tutto oggi profondamente segnate dalle lotte interne.

Nei mesi seguenti venni pedinato e controllato a vista da vari agenti che si trovavano nel palazzo in cui lavoravo. Ricevetti anche numerose lettere anonime (scritte, immagino, direttamente dal PIDE) con commenti a dir poco sgradevoli sulla mia vita privata e sulla mia attività professionale. Periodicamente la polizia politica mi convocava e chiedeva di compilare varie pratiche burocratiche: si trattava a tutti gli effetti di una forma nemmeno troppo implicita di intimidazione.

A seguito dell’“incidente” il capo-ufficio dell’AP a Madrid, Harold Milks, suggerì all’ufficio centrale dell’AP di New York di farmi trasferire con discrezione in un altro paese. Scrissi subito al presidente  della sede di New York che una simile decisione avrebbe creato un pericoloso precedente e che preferivo rimanere a Lisbona, anche senza scrivere nulla, per dimostrare che gli organi di stampa americani non si facevano mettere sotto pressione da nessun governo.

Il presidente mi diede ragione e mi suggerì di scrivere tutto quello che vedevo. Nell’estate del 1967, un anno dopo l’incontro ravvicinato con la polizia politica, venni trasferito a Roma per lavorare come corrispondente e inviato dall’Italia.

Nonostante nel corso della mia carriera sia stato in molte situazioni pericolose ed abbia avuto a che fare con dittature militari particolarmente feroci (come quella del Brasile e dell’Argentina negli anni ’70, ad esempio), ho sempre considerato il faccia a faccia con il PIDE una sorta di “battesimo di fuoco” nel mondo del giornalismo. All’epoca, infatti, avevo solo 23 anni ed era il mio primo incarico come corrispondente estero.

Quello che ho imparato da questa esperienza, e che ho sempre cercato di applicare nel corso della mia carriera, è di verificare rigorosamente le informazioni utilizzando più fonti, di cercare di rispettare le leggi locali per non essere falsamente accusato di qualcosa, di affidarsi ai colleghi e, infine, di prendere gli episodi spiacevoli con umorismo e leggerezza.

© Dennis Redmont 2014

www.dennisredmont.com

Twitter: @dennisredmont