Una scritta: Press. E una lunga scia di sangue

andy_rocchelliOgni volta che si spara a un giornalista il racconto di un pezzo di mondo scompare. Andy Rocchelli, il fotoreporter piacentino di 30 anni ucciso la notte del 24 maggio in Ucraina, stava lavorando a una storia: le cantine usate come bunker dalla popolazione civile. Se non ci fosse stato lui nessuno di noi avrebbe visto quelle immagini di bambini raccolti in silenzio nel buio di uno scantinato. Nessuno conoscerebbe quella storia. Ma il suo racconto è stato bruscamente interrotto.

Ora conosciamo quel piccolo frammento di mondo, ma chissà cosa non conosceremo mai a causa della sua morte e di quella di tanti altri giornalisti. Andy e il suo interprete, Andrey Mironov, sono stati uccisi da un colpo di mortaio alle porte di Sloviansk. Viaggiavano in macchina nel mezzo della lotta armata tra filorussi ed esercito ucraino a Donetsk, nella regione più calda del conflitto. Non si sa ancora chi abbia aperto il fuoco sul convoglio. Ne tantomeno perché. Rocchelli era un fotografo esperto e potrebbe essere rimasto vittima di un tiro incrociato. Oppure può esser stato colpito deliberatamente. Nell’est Ucraina ormai è caccia ai giornalisti.

Succede sempre così nelle zone in cui la lotta per il potere si fa violenta, spietata, siano esse zone di guerra o di spartizione tra gang criminali. Dove l’opacità degli affari non tollera la visione trasparente di uno sguardo esterno, di un giornalista, che cerca di dare voce alle parti in campo ma soprattutto alla popolazione. E in questa guerra alla stampa, che non conosce razza, religione o sesso, il dato più inquietante è quello relativo all’impunita dei delitti. Chi negli ultimi anni ha ucciso un giornalista o un operatore della comunicazione è stato punito solo in un caso su dieci, secondo i dati raccolti dall’UNESCO.

Una storia di impunità che purtroppo anche il nostro paese conosce bene. Basti pensare ai casi di Graziella De Palo o Ilaria Alpi. Nessun mandante è stato ancora trovato per la loro morte e spesso il colpevole designato dalla giustizia nasconde verità più complesse. Solo dopo 20 anni si è deciso finalmente di desecretare le carte dei servizi segreti relativi all’omicidio Di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, avvenuto nel 1994 in Somalia. La giornalista del Tg3 stava indagando su traffici illegali di armi e rifiuti tossici. Una pista totalmente confermata dai documenti recentemente rivelati, che a pochi mesi dal delitto già sembravano indicare i possibili responsabili. Una pista che però si è poi insabbiata per anni nei meandri di una fitta rete di collusione e silenzi, con una giustizia lontana e a volte beffarda.

Secondo il Commitee to protect journalist (CPJ), solo nel 2013 sono stati uccisi 71 giornalisti. In Siria 28, 10 in Iraq, 6 in Egitto. Il resto tra Afghanistan, Turchia, Pakistan, Somalia, India e Brasile. Nel complesso i due terzi dei giornalisti sono stati uccisi in Medio Oriente, la restante parte in America Latina. Il dato è in linea, anzi in leggero calo, rispetto a quelli degli anni precedenti, ma non può lasciare indifferente chi ancora crede nella libertà dell’informazione e nell’importanza di testimoniare le atrocità della guerra.

Dal 1992, sempre secondo il CPJ, sarebbero almeno 71, ricorre questo numero, le reporter donne uccise. Ma a morire sul campo per raccontare la libertà non sono solo giornalisti ma anche tanti cameraman, netizens e citizen journalists. La libertà ha un prezzo che alcuni regimi non vogliono permettersi di pagare.

Dietro i numeri ci sono i volti, la passione e un grande entusiasmo. A volte senza esperienza, a causa della giovane età. Ahmed Assem el-Senousy aveva 26 anni e lavorava per il quotidiano egiziano Al-Horia wa Al-Adala. L’8 luglio dello scorso anno era in piazza per raccontare gli scontri tra i manifestanti e i sostenitori del presidente Morsi. Quando ci si trova in mezzo a migliaia di persone il giornalista corre gli stessi rischi di chi è intorno a lui, non c’è niente a proteggerlo. Quel giorno Ahmed subì la stessa sorte di altre cinquanta persone, tutti uccisi dai colpi dei cecchini. La stessa età aveva Camille Lepage, una coraggiosa fotoreporter francese freelance.«Ci vorranno otto ore di moto perché qui non ci sono strade», scriveva su Twitter pochi giorni prima di essere uccisa, il 13 maggio, in Repubblica Centrafricana. Era andata a raccontare quei delitti di una guerra lontana che non fa più notizia.

Guerre dimenticate. Guerre che durano da troppo tempo. Anja Niedringhaus conosceva bene l’Afghanistan. Lo raccontava da anni e si apprestava a seguire le attese elezioni presidenziali del paese. «Quando vedevo il suo caschetto di capelli bianchi in mezzo alla folla, con in mano la sua macchina fotografica, allora capivo di essere nel posto giusto. Dove c’era lei, c’era la notizia»: così la ricorda Lucia Goracci, inviata di Rainews24. Ma la fotografa dell’Associated Press, premio Pulitzer, è diventata l’ennesima vittima di un paese al collasso ed è stata uccisa nella provincia di Khost, vicino al confine con il Pakistan. A sparare una guardia armata afgana. Solo poche settimane prima erano morti a Kabul il giornalista svedese Nils Horner e l’afghano Sardar Ahmad.

Era il 19 novembre del 2001 quando Maria Grazia Cutuli, inviata del Corriere della Sera, stava percorrendo la strada che da Jalalabad porta a Kabul. Stava seguendo una notizia, la più importante dell’anno per un’inviata: la caduta del regime dei talebani. Un agguato, la fine. È stata giustiziata, insieme all’inviato di El Mundo Julio Fuentes e a due corrispondenti dell’agenzia Reuters, l’australiano Harry Burton e l’afghano Azizullah Haidari.

A volte però non serve partire, la guerra può essere nel tuo paese, a casa tua. Era in casa Regina Martinez Perez quando è stata uccisa, a Vera Cruz, in Messico, uno dei Paesi più pericolosi al mondo per i giornalisti. Nella sua ultima settimana, di lavoro e di vita, era immersa in un’inchiesta sui Los Zetas, un potente cartello del narcotraffico. Era il 28 aprile del 2012. Solo nel mese di maggio moriranno poi altri sei giornalisti. L’ultimo caso noto è quello di Gregorio Jimenez, sempre a Veracruz nel febbraio di quest’anno. La porta di casa sua, invece, Anna Politovskaya non l’ha più aperta. Era in ascensore quando un killer l’ha freddata con quattro proiettili, il 7 ottobre 2006, per le sue denunce sulle violenze in Cecenia. Lei e tanti altri suoi colleghi del giornale Novaya Gazeta erano in prima linea con inchieste scomode al potere ed hanno pagato con la vita la loro dedizione.

Ma cosa unisce queste persone così lontane, così diverse, vittime di una guerra senza confine al libero pensiero e alla libera informazione? L’indipendenza intellettuale, la libertà e il mestiere di raccontare, attraverso il testo o le immagini. Ma come vivono i giornalisti il loro rapporto con la paura? Come una compagna imprescindibile e a volte preziosa della loro vita.

«Quando l’ho visto steso sul piano di metallo dell’ospedale, che non respirava, che era bianco, mi ha fatto effetto, perché è la prova che quello che tu temi è reale. Può succedere anche a te». Steso su quel piano di metallo c’era Raffaele Ciriello, fotografo italiano ucciso a Ramallah, in Palestina, nel 2008. A parlare è Pier Paolo Cito, un suo collega e amico con una lunga esperienza di giornalismo di guerra: Afghanistan, Siria, Kosovo, striscia di Gaza sono alcune delle zone in cui ha visto morire civili, ma anche giornalisti. «Facciamo questo lavoro ma pensiamo che non succederà a noi. Non vai lì a fare il martire». E certo non erano andati a fare i martiri Ghislaine Dupont e Claude Verlon, inviati di Radio France International, rapiti ed uccisi a Kidal, in Mali, lo scorso 2 novembre. Sapevano di correre dei rischi, ma hanno deciso comunque di andare ad intervistare il capo tuareg Ambery Ag Rhissa, leader del movimento per l’indipendenza del Mali settentrionale. Cinque pallottole hanno fermato le loro parole.

A questo punto verrebbe da chiedersi: può davvero valere la pena sacrificare la propria vita per una missione? Immaginava questa domanda anche Marie Colvin, la reporter statunitense uccisa in Siria il 22 febbraio 2012. In un discorso tenuto nel 2010 alla St. Bride’s church a Londra aveva risposto così: «Molti di voi ora si staranno chiedendo: vale davvero la pena? Possiamo davvero fare la differenza? Ho affrontato questa domanda quando sono stata ferita in un’imboscata, in Sri Lanka. La mia risposta oggi come allora è: si, ne vale la pena. All’epoca dei blog, di Twitter, di Internet, siamo in contatto costante. Ma il giornalismo di guerra è rimasto più o meno lo stesso: qualcuno deve andare lì e vedere cosa sta succedendo. La vera difficoltà è avere abbastanza fiducia nell’umanità da credere che i governi, l’esercito o l’uomo della strada avranno interesse a leggere quello che hai scritto, per la stampa, la televisione, o il web. Noi abbiamo questa fiducia. E pensiamo di poter fare la differenza».