Le bombe di carta

di Dario Biocca

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Militari britannici ‘armano’ una bomba T-3 sostituendo all’esplosivo giornali e libri (agosto 1944)

Numerosi articoli, saggi e libri, apparsi recentemente, ci aiutano a conoscere le impressioni che gli americani ebbero dell’Italia quando i contingenti della Settima armata sbarcarono in Sicilia nel luglio del 1943. Appena le forze alleate cominciarono a risalire la penisola, gli ufficiali del Psychological Warfare Branch assunsero il delicato compito di controllare la circolazione delle notizie, censurare i giornali, revocare le autorizzazioni alle testate politicamente “sospette” e adottare misure punitive per quanti, tra i giornalisti, si fossero macchiati di “crimini fascisti”.

Conosciamo il nome e il grado degli ufficiali del PWB, il loro addestramento, le iniziative assunte in zone di guerra e nelle aree liberate, i loro dubbi di fronte ai giornalisti italiani troppo repentinamente passati all’antifascismo. Dagli archivi sono emerse anche le improbabili autobiografie che redattori, cronisti e direttori presentarono al PWB per nascondere il loro passato descrivendosi come vittime invece che strumenti delle ventennali campagne fasciste di propaganda politica o razziale. Era l’inizio di una lunga vicenda di rielaborazione collettiva del passato di cui ha scritto di recente con accortezza, tra gli altri, Pierluigi Battista in Cancellare le tracce.

Assai meno conosciuta in Italia è invece la vicenda che condusse, dopo l’ingresso degli Stati Uniti in guerra, alla nascita del PWB e al dispiegamento di un formidabile apparato di propaganda e contropropaganda fondato sulla carta stampata e la radio. Scambiata a lungo (e ingenuamente) per il prodotto di un generico entusiasmo diffuso tra gli americani per la guerra contro il fascismo e il nazismo, che avrebbe “convertito” il nemico prima ancora di combatterlo, in realtà il PWB fu il risultato di una saldatura tra diversi elementi, esperienze e iniziative già avviate negli Stati Uniti da alcuni anni. Regista di questa operazione, oggi lo sappiamo in dettaglio, fu la Fondazione Rockefeller che già negli anni Trenta finanziò ricerche, allora considerate pionieristiche ed eticamente discutibili, su come i media potessero intervenire per proteggere il pubblico americano dal contagio delle ideologie totalitarie. Non era, in termini teorici e pratici, un compito facile.

Per alcuni anni, alla vigilia della guerra, la Fondazione Rockefeller organizzò seminari e incontri (segreti) tra accademici, giornalisti, leader politici e opinion makers per meglio delineare i meccanismi psicologici che conducevano (e conducono) la mente a creare immagini e associarle tra loro così come, secondo la scuola psicologica “transattiva” allora prevalente in America, ciascuno è indotto a fare per ogni elemento estraneo alla propria, diretta esperienza. Si tratta di “immagini della mente”, secondo l’espressione di Walter Lippmann, elaborate per rappresentare luoghi, persone, culture, ideologie, tutto ciò che conosciamo ma è lontano dalla nostra vita di ogni giorno. Cancellando, modificando o creando nuove immagini, in un’azione concertata tra i più pervasivi mezzi di informazione di massa, gli uomini della Rockefeller speravano di salvare l’America dall’antisemitismo e dall’odio ideologico. Alla fine, osservarono i critici, si trattava di carpire il segreto della propaganda dei regimi totalitari, perfezionarne il metodo e modificarne i contenuti fino a ottenere l’effetto opposto. Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale le iniziative della Fondazione si intensificarono e diedero vita a una vera campagna, organizzata in segreto, per difendere sulla stampa e alla radio, con ogni mezzo, i valori della democrazia.

Concordare una strategia segreta tra direttori, redattori e corrispondenti di testate giornalistiche era un metodo “fascista” di difendere la libertà? Secondo alcuni lo era ed era per questo inaccettabile. Presupponeva una visione stereotipata del nemico, una caricatura della sua identità e della sua ideologia, persino un’esasperazione della sua viltà e immoralità – anche Il grande dittatore, il capolavoro di Chaplin uscito a New York nel 1940, fu allora oggetto di simili critiche. Ma il metodo adottato dalla Fondazione Rockefeller alla fine produsse risultati persino superiori alle aspettative e protesse efficacemente l’America; ebbe successo, in particolare, con gli immigrati provenienti dai Paesi più ostili agli Stati Uniti, tra i quali gli italoamericani, i quali a grande maggioranza scelsero la loro nuova patria e la difesa della democrazia.

Quando gli Stati Uniti entrarono in guerra il concetto di opinione pubblica e il ruolo dei media nella manipolazione delle “immagini della mente” erano già stati esaminati attentamente da una nutrita pattuglia di studiosi e scienziati della comunicazione fino a definire, sperimentare e misurare un metodo efficace per influenzare il pubblico, anche il più avverso. Lo stratega che per primo applicò il metodo al conflitto mondiale fu lo psicologo Hadley Cantril, fondatore del Princeton Listening Project poi finanziato anche dalla Cia. Cantril era un entusiasta sostenitore della radio come strumento di propaganda, utile a introdurre in territorio nemico i “semi” della democrazia americana. Tutti nel mondo, a suo avviso, li avrebbero accolti e condivisi poiché, così a lui sembrava, erano valori universali. Quanti vi si opponevano erano solo male informati; il sistema (occulto) della comunicazione doveva persuaderli escogitando metodologie appropriate e creando “immagini della mente” sempre più efficaci. Il successo del PWB, misurato nel corso della guerra e negli anni successivi, fu straordinario. Nessun Paese come gli Stati Uniti d’America riuscì a proiettare di sé una immagine così accattivante, persuasiva, generosa e per molti aspetti autentica.

L’altro stratega dell’uso bellico del sistema messo a punto dalla Fondazione Rockefeller fu William Donovan, il celebre capo dei servizi di informazione americani dispiegati sui fronti di tutto il mondo. In pochi mesi “Bill” Donovan rivoluzionò il reclutamento non più di “spie”, intese come semplici informatori infiltrati tra le file nemiche, ma di personalità autorevoli, competenti e influenti – soprattutto giornalisti. A capo della rete europea di spionaggio Donovan chiamò quindi Allen Dulles, un conoscitore attento dell’Italia e amico personale di numerosi esuli antifascisti, autorità vaticane e, naturalmente, giornalisti. Fu anche per sua iniziativa che dai cieli di tutta Europa, invece di bombe incendiarie ed esplosivo, a volte caddero sulle città nemiche giornali, volantini, riviste e libri.

Molti elementi ancora sono emersi dai più recenti lavori storiografici sul PWB. Gli ufficiali inviati in Italia, in particolare, espressero dubbi sulla conversione delle testate e dei giornalisti alla democrazia e ne riferirono ai comandi militari e a Washington. Tuttavia i più accorti tra loro si persuasero che non si trattava di machiavellici accomodamenti né di menzogne; era invece un fenomeno più complesso, di cui anche la Fondazione Rockefeller avrebbe preso atto. L’adesione al fascismo da parte dei giornalisti italiani era stata davvero superficiale e, per alcuni, persino insignificante; tuttavia, così anche l’adesione alla democrazia sarebbe stata superficiale e, per alcuni, insignificante. In Italia, conclusero i responsabili del PWB, i giornali esercitavano un potere legittimato dai partiti politici e dai grandi gruppi industriali. Malgrado i mutamenti introdotti nel 1944 nella struttura e organizzazione dell’Albo dei giornalisti, presto il Parlamento avrebbe reintrodotto le regole del passato, incluso il “fascistissimo” Ordine dei giornalisti – come in effetti avvenne nel febbraio del 1963. Dietro questo ritorno al passato, tuttavia, non vi era nostalgia per il regime di Mussolini ma la persuasione che i partiti e il Parlamento, non la società civile nelle sue molteplici componenti, dovessero esercitare un controllo vigoroso e verticale sull’informazione. Era una visione della democrazia e della libertà di stampa molto diversa da quella americana. Il PWB, dunque, poteva esportare la democrazia in Italia ma vi sarebbe riuscito solo in parte; dopo venti anni di dittatura, gli italiani intendevano rieducarsi alla libertà ma lo avrebbero fatto da soli, e a modo loro.